Riuscire a far seguire, anche senza postazione fissa, un evento televisivo come #Sanremo2016 a tantissime persone e renderlo protagonista di un processo di live tweeting che ha portato il suo hashtag a rimanere un trend topic per molti giorni (e ancora se ne registrano gli strascichi). Questo il vero successo del Festival di Sanremo.
Molte persone ne hanno seguito lo svolgimento dai loro smartphone, dalla radio e dalla TV, ne hanno commentato gli aspetti, hanno ironizzato e preso parte al dibattito futile, ma divertente, che ha suscitato. Un evento che è andato oltre la televisione, potremmo dire un Festival multimedia.
Un complimento per il Festival della Canzone italiana, nato nel 1951 con intenti di certo non così ambiziosi. Un grande traguardo che va senza dubbio oltre le aspettative e anche oltre le intenzioni di Carlo Conti, che è tuttavia uno che sa lavorare bene, che sa fare l’occhiolino al Sanremo Arcobaleno (hashtag lanciato con successo da Andrea Pinna) facendo finta di non saperne niente, che sa giocare sull’imbarazzante incapacità televisiva di Gabriel Garko per sfruttarne l’effetto sul pubblico, che sa farsi perdonare anche la passione per Pieraccioni e Panariello e sa dire cose molto banali come se stesse declamando la Divina Commedia. Insomma, un paraculo, perdonate il francesismo, che sa di avere difetti ma che li fa dimenticare con un certo bon-ton.
In realtà, per quanto Sanremo rimanga il solito evento pop, più o meno sempre uguale a se stesso, l’essere riusciti a farne un evento social è senza dubbio l’unico vero successo della manifestazione. Ed è un successo tutto popolare.
La capacità di essere stato, più che mai, la spugna dei nodi centrali del paese, con l’adesione, di artisti e di pubblico, alla tematica delle Unioni Civili. La capacità di aver tolto al primo premio quella sacralità da podio olimpico, un po’ rendendo relativo il concetto di primo posto e utilizzando il senso di gara all’inglese, in cui la bellezza non è vincere ma vedere tante istanze stimolanti tutte concentrate. Un’occasione per ascoltare i migliori (o i peggiori), prenderne spunto, dissentire, applaudire o criticare. Un luogo politico, per la comunità. Qualcosa di “sano” in termini di dialogo, alla quale forse non eravamo abituati. Questi i punti di forza mediatici.
I vincitori di Sanremo? A parte i social, che hanno giocato un ruolo primario, la lotta per i diritti civili, che ora arrivano in Parlamento con il ddl Cirinnà, sui quali il paese si dimostra più avanti di certe ombre oscurantiste (gli Stadio, i vincitori, dicono: “Appoggiamo #UnioniCivili ma se non abbiamo indossato le fasce arcobaleno non vuol dire che non condividiamo”), la musica e le parole (potremmo infatti definirlo un Festival logocentrico) e la volontà di avere davanti non un pubblico passivo, steso sul divano a bere birra e ruttare, ma un pubblico che sappia dirti in faccia quando qualcosa fa schifo o gli piace.
I cantanti? Certo che Arisa ha una bella voce con un testo gradevole, Francesca Michielin ha fatto bene, può crescere e trovare la sua dimensione, Ruggeri, in look Megamind, entusiasma sempre, e Patty Pravo, alla quale perdoneresti non solo le stecche ma anche efferati omicidi, ha partecipato con musica e testo di un’eleganza sconcertante. Poi Irene Fornaciari, Valerio Scanu, che di voce ne ha eccome, e ovviamente Noemi che riempie sempre tutto di rosso, perché la personalità è forte (e il video anche di più). Quella che non mi piace è la coppia #caccamoiurato, capisco che gli anni Novanta possano sempre ritornare, tuttavia mi fermerei alle salopette e alle camicie tartan.
I momenti migliori sono quelli in cui Virginia Raffaele imita, ma non tanto perché sappia imitare (lo fa bene, per carità), bensì perché imitando utilizza una maschera per dire qualcosa che tutti pensano e nessuno dice (“se la presenza di Elton John è una pubblicità pro-gay, allora quella dei Pooh è una marchetta all’INPS?”); quelli in cui Cristina d’Avena, il volto per eccellenza dell’infanzia di centinaia e centinaia di bambini (presenti, futuri e passati), mostra i colori arcobaleno, simbolo della battaglia per i diritti civili del mondo LGBTQ. Lo fa come ha sempre fatto, sorridendo, facendo spalluccia, rimanendo una voce onesta, coerente e vera di un mondo al quale, specialmente in periodi difficili, amiamo ritornare. E pazienza se Renato Zero non se ne è fatto portavoce pure lui. Vi invito a ricordare che ci ha divertito cantando Il triangolo e Mi vendo e non We Shall Overcome. L’occasione l’ha persa lui.
Forse il vero successo del Festival di Sanremo è proprio questo, in tempi difficili, in cui il cambiamento urge, amiamo ritornare al solito, al conosciuto. Perché questo solito, questo conosciuto, possa assumere sfumature diverse dal patetico rifiuto della complessa e difficile realtà che ci aspetta, occorre che si faccia carico del cambiamento assorbendone tutti i colori. In tempi di cambiamento, la forza del buono non sta infatti nel rifiutare il dialogo con le nuove istanze, diventando così roba vecchia, ma nel rifletterne il fermento.
È una lezione che molti in politica dovrebbero seguire.
By Matteo Tuveri
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