Fra il tempo che scorre, in bilico sul filo del rasoio fra malinconia, ricordo e risveglio, Nanni Moretti utilizza un canovaccio già a lui noto per porre nuovamente se stesso come narratore al centro della scena (e delle inquadrature). In un gioco di specchi con i maestri del passato, e omaggi densi di significato, mette in scena tre film in contemporanea cercando, con ottime soluzioni, di condurci attraverso la storia di Giovanni, che deve anche affrontare i nodi del suo lungo matrimonio con Paola (produttrice dei suoi film); la storia della pellicola che deve realizzare, e i sogni per un futuro film, una pellicola vagheggiata a lungo in cui narrare la storia di una coppia accompagnata dalle più belle canzoni italiane (c’è poi un quarto film, quello del nuotatore, ispirato al racconto di John Cheever).
ll regista protagonista sta girando un film ambientato a Roma nel 1956 in cui si narra la storia di Ennio (Silvio Orlando), redattore dell’Unità e dirigente della sezione del Pci “Antonio Gramsci” di Quarticciolo, e della compagna Vera (Barbora Bobulova), militante appassionata. Sulla scena della storia mondiale irrompe l’invasione dei carri armati sovietivi a Budapest (la rivoluzione ungherese del 1956) e nel piccolo mondo dei protagonisti entra invece il Circo Budavari, proveniente proprio dall’Ungheria.
Tante le battute e le scene memorabili. Il circo in arrivo da Budapest, il suo sorgere dal nulla, insieme ai personaggi, al tendone e alle funi, e il suo essere smantellato fino a ricomparire quasi sui titoli di coda, con i volti più noti di Moretti in una ideale sfilata di esperienza e gratitudine. E ancora la scena in cui i due ragazzi litigano a bordo strada diretti dal regista che si pone fra loro – direttamente dal finestrino dell’automobile – ispirando e dettando parole e sensazioni in un crescendo di sentimenti incalzante e commovente che riprende le dinamiche del dramma borghese.
L’amore e la solitudine sono al centro di una pellicola pessimista mai affetta da disfattismo, spesso ironica (come nel migliore Moretti), e si affiancano al problema della memoria storica e delle necessità di svegliarsi dall’incanto del “come eravamo” per ricostruire con drammatica presa di coscienza un faticoso avvenire. Perchè la storia va fatta con i se, alla Brecht, prima che diventi fatto e sia incontrovertibile, anche attraverso una preontologia dell’esistenza. Sullo sfondo un monito (non solo alla sinistra) all’ortodossia politica che allontana le persone dalla politica.
Interminabili le citazioni dei grandi Maestri della settima arte: Jacques Demy con il suo Lola; Arthur Penn con La caccia; una lunga e petulante scena imperniata su Krzysztof Kieślowski e il suo Breve film sull’uccidere (1988). E infine Federico Fellini, una interminabile dichiarazione d’amore a La dolce vita e al circo. A Mastroianni che saluta con la maschera di fanciullo depresso. Sullo sfondo il “mostro” affamato Netflix e la standardizzazione dei contenuti cinematografici.
Immensa libreria, un po’ piaciona, da cui attingere infiniti tic morettiani, come l’avversione per i sabot (se il piede è coperto davanti, deve esserlo anche dietro ndr), l’ossessione per la Vespa (diventata monopattino) o l’ascolto di determinate canzoni (Noemi, Tenco, Battiato, Joe Dassin) o di gesti apotropaici (o psichiatrici) come il consumo di un gelato davanti ad un film specifico (per propiziare la sorte e predisporre la mente), con i quali la storia deflagra, si sfrangia e degenera in tante pieghe narratologiche. La pellicola potrebbe degenerare in confusione se il regista ogni tanto, affidandosi alla recitazione di Margherita Buy, non intervenisse riconducendoci alle trame centrali e concrete. Un film nel film con due (e tre) trame legate e complementari in cui ogni tanto una interrompe l’altra, creando suspence e stimolando lo Zeigarnik che c’è in ogni spettatore.
Moretti cita se stesso (ma anche Fellini è la quintessenza dell’autoreferenzialità, e ne ha fatto una religione ndr): la copertina con cui si avvolge per guardare il film è la stessa di Sogni d’oro (1981); la scena in auto affianco alla Buy è la medesima di Palombella rossa (con Asia Argento). E lui è sempre in qualche modo Giovanni, come in Mia Madre (2015) e ne La Stanza del figlio (2001), una sorta di proiezione di sé.
Forse un po’ troppo vasto, o forse pensato perché di volta in volta si possa prendere dagli scaffali della memoria e dell’esperienza umana quello che interessa. Senza un fuoco preciso, semplicemente vivendo e ribaltando continuamente le aspettative.