Alba Rohrwacher, che per la sua interpretazione in Mi fanno male i capelli si aggiudica il Premio Monica Vitti al Festival del Cinema di Roma, è una paziente affetta da un morbo degenerativo del cervello che non solo le ruba i ricordi (e insieme ad essi la memoria dei volti familiari), ma che, per un spinta alla sopravvivenza, la costringe a sovrapporre alla propria storia quella dei personaggi dei film di Monica Vitti. Coinvolgendo in questo processo anche il marito: pur di non perdere le persone amate e il senso di calore di un’esistenza condivisa, la mente riscrive i momenti della sua vita, cancellati dalla patologia, inserendo anche il marito Edoardo nella propria sceneggiatura.
Ed è per questo che Monica, la protagonista del film, mentre vede sfiorire le rose del proprio giardino, petalo dopo petalo, trova nei film della Vitti il perfetto alter ego per una sopravvivenza comica e tragica insieme. Delicata, sensuale, “leggera” e drammatica, la Rohrwacher immette energia in un personaggio che in ogni istante lo spettatore abbraccia, segue e comprende. Senza eccessi o fronzoli, Roberta Torre, che è regista e autrice di soggetto e sceneggiatura (con Franco Bernini), monta alcune immagini dei film di Monica Vitti (La notte e L’eclisse di Antonioni, Le coppie, Teresa la ladra, Polvere di stelle, Amore mio aiutami, A mezzanotte va la ronda del piacere, Limite di Mario Peixoto, Le tempestaire di Jean Epstein, Quando l’occhio trema di Paolo Gioli) e attraverso l’amore della pellicola per l’attrice – e per i volti maschili che l’hanno affiancata, come Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Alain Delon e Michele Placido – mette in scena il gioco dell’amore. Un gioco in cui Edoardo, e solo lui, interpreta il ruolo del vero gigante.
Un film delicato che fa male perché spinge a fondo il dito nelle ferite del tempo, nella memoria persa e nella nostalgia per qualcosa che ci saluta e necessariamente non torna. Filippo Timi con una recitazione asciutta, è l’uomo perfetto, il compagno che protegge a costo della vita e si frappone fra la persona che ama e il dolore di un’esistenza minacciata: ossessionato dai problemi economici, dalla presenza di parenti e amici usurai, veri e propri rapaci affamati, pronti a strappare dalla carne affaticata della quotidianità tutto ciò che ha un valore, Edoardo difende la tenerezza del nido familiare con lo slancio dell’antieroe neorealista (o della migliore commedia italiana).
Fotogrammi di ambienti anni sessanta (la magia di Anna Forletta e Flaviano Barbarisi), gradienti di colore, montaggio (Paola Freddi) primissimi piani e i costumi di Massimo Cantini Parrini (allievo di Tosi, vera e propria eccellenza del cinema) collaborano, intrecciati – senza potersi mai separare – con una sceneggiatura scritta con raro senso della poesia. E poi c’è la musica, fra il melodrammatico e il jazz (free, come frizzante e come duttile) di Shigeru Umebayashi.
La Torre allestisce l’addio a un cinema ormai estinto, ai suoi protagonisti, e ci insegna a dire addio anche noi alle persone che amiamo con vibrante dignità. Una preziosa elaborazione del lutto che avviene grazie al cinema mentale che ognuno di noi riceve alla nascita.