Vorrei percorrere un miglio nelle scarpe di Louise Banks(una meravigliosa Amy Adams), esperta di linguistica, che, accompagnata da una squadra di intelligence militare con a capo il colonnello Weber (Forest Whitaker) e dal fisico quantistico Ian Donnelly (Jeremy Renner), deve imparare a comunicare con due creature aliene, gli Heptapod, dopo che dodici misteriose astronavi sono apparse contemporaneamente sulla Terra. Questa è in sintesi la trama di Arrival, film del 2016 di Denis Villeneuve (Incendies, Dune). Perché parlare di un film uscito nelle sale ormai quattro anni fa? A mio avviso abbraccia perfettamente il tema dell’attuale numero di Mockup “Un miglio nelle tue scarpe” e ci svela verità profonde sulle relazioni umane: l’accoglienza e l’accettazione dell’altro da sé come sola chiave della conoscenza del mondo e di sé stessi.
Arrival segue un ritmo lento, decisamente diverso da quanto ci si aspetterebbe da un film che racconta un’invasione aliena. Cosparso di episodi asincroni, Il film mette in discussione il concetto di tempo lineare, proponendo un’ipotesi flessibile dello stesso. Cosa succederebbe se il tempo potesse essere piegato, modellato, se potessimo fare scelte sul presente dal futuro e sentire l’impatto delle scelte future nel presente? Come cambierebbero i nostri rapporti interpersonali, come la nostra realtà? Villeneuve sovverte le aspettative e trasforma una storia apparentemente Sci-Fi in una meditazione profonda su un tema necessario all’esistenza umana, la necessità dell’empatia nella comunicazione. Se vogliamo entrare in contatto l’uno con l’altro, abbiamo bisogno di entrare in comunione e di comprenderci profondamente. La premessa del film si basa sull’idea, condivisa da linguisti e filosofi del linguaggio, che non tutti sperimentano la stessa realtà. La nostra percezione di essa assume forme diverse secondo gli strumenti linguistici che usiamo per descriverla. Ci sono studi che dimostrano come il cervello non percepisca un colore in tutte le sue sfumature fino a quando non possegga i mezzi linguistici appropriati per distinguerne le proprietà specifiche. Lo stesso accade in altri ambiti, alcune emozioni sono articolate in alcune culture e non in altre. Potremmo percepirle, ma senza una parola esatta per descriverle siamo inclini a raggrupparle con emozione simili*. Questa è l’intuizione di base di Arrival: se dovessimo incontrare una cultura radicalmente diversa dalla nostra, non basterebbe semplicemente imparare la grammatica e il lessico. Dovremmo assorbire un modo diverso di vedere e di sentire, dovremmo decifrare il mondo con codici differenti.
Similmente alle ultime tendenze nel pensiero scientifico e nelle arti, il film si muove nella direzione dell’armonica comunione tra le scienze matematiche (la teoria quantistica) e le scienze letterarie (l’Ipotesi di Sapir-Whorf), quasi una Summa medievale di arte e conoscenza. Padroneggiare la lingua degli Heptapod, comunicare con loro, significa quindi aprirsi a nuovi orizzonti del pensiero, nuovi modelli di vita. Come l’Ipotesi di Sapir-Whorf e gli ultimi studi delle neuroscienze e di psicologia affermano, è la lingua che forgia e in-forma il pensiero, la mente, il comportamento, la conoscenza.
Pur parlando a un pubblico ampio, Arrival usa un linguaggio filmico mai scontato, che intreccia con profonda levità significato e significanti. Il montaggio mescola senza soluzione di continuità passato presente e futuro, mutuando a piene mani dalla fisica quantistica: una nozione del tempo che non è la nostra, la possibilità di essere in qualsiasi istante nel tempo. Il tempo lineare non esiste, è solo percezione, viviamo in infiniti presenti, sembra proporci Villeneuve. La circolarità del tempo si svela, in altri mondi e in altri tempi, attraverso il pensiero e il linguaggio circolari (simbolo della lingua degli Heptapod è infatti il cerchio, come un Uroboro, il serpente che mangia la propria coda, eterno ritorno, alchemica energia universale, rinascita).
La scelta delle inquadrature (molti primi piani imbevuti di luce), con la complicità dell’eterea colonna sonora di Max Richter e Johann Johannson, crea atmosfere sospese; il regista compie la scelta di sottrarsi ai luoghi comuni del genere fantascientifico e al ruolo di mediatore di significato per far sì che lo spettatore entri direttamente in contatto empatico con l’intimo sentire di Louise Banks. Restano solo i suoi sguardi e il suo volto, pieni di stupore. È la conquista dell’eterno femminino, l’abbraccio empatico di ciò che è differente (il mondo maschile del film, i governi mondiali, erano invece pronti all’attacco). Louise è la quintessenza dell’universo femminile che non ha paura delle differenze e le accetta in nome dell’Amore che tutto accoglie, finanche il dolore straziante (il futuro che chiama il presente) della perdita di un figlio.
Sono proprio le caratteristiche del cervello femminile, diverse da quelle maschili** che riescono a decodificare la lingua aliena, a comunicare e a comprendere la cultura degli Heptapod; conoscere il linguaggio è quindi apertura mentale, è accettazione, è conoscenza (anche di una scienza che per ora solo teorizziamo), ed è profondamente liberatorio. In Sud Africa esiste un concetto, UBUNTU – “I am because you are”, “sono in quanto sei”, cioè sono in connessione, esisto come plurale, perché non possiamo essere se non riconoscendoci nell’altro.
“If you could see your whole life ahead of you right now, would you do anything differently?” (Louise)