Inutile ricordare ai moralizzatori dell’ultima ora cosa possa rappresentare Maradona per un ragazzo della periferia di Napoli (ma anche di Bari o Catania), di Puerto Iguazu (al confine tra Argentina, Brasile Paraguay) o di Villa Jardin (Municipio di San Fernando), quartiere dove il traffico di stupefacenti e la criminalità dominano incontrastati e dove nascere poveri significa spesso essere condannati con il marchio di Caino sulla pelle.
In questo “beatissimo” mondo di meritocrazia tradita, in cui studiare spesso non ti garantisce proprio nulla (ed è spesso impossibile per alcuni), in cui il cosiddetto sogno americano è un’utopia anche per chi può pagare le tasse universitarie (facendo in fretta a finire le scuole obbligatorie, prima che i pesci piccoli del racket ti arruolino fra i venditori di sogni artificiali, o ti affittino al miglior offerente), Diego Armando Maradona rompe la cortina dell’impossibile, riversa nella furia delle gambe e dei polpacci la rabbia della periferia, la vendetta della povertà accumulata, e la trasforma in oro, oro puro come i suoi piedi, e riscatto.
Un Montezuma che si fa Dio sul campo verde solo grazie alla sua immanente apollinea voglia di prendere la vita per il collo, quella stessa vita che voleva collocarlo nelle file degli ultimi. Piccolo, strafottente, schietto, folle: nella vita così come nelle azioni di gioco. Di lui Platini diceva che fosse “capace di cose che nessuno avrebbe potuto eguagliare. Le cose che io potrei fare con un pallone, lui potrebbe farle con un’arancia”, mentre i più tecnici ne esaltano le doti da centrocampista offensivo, mancino e fantasioso fautore di dribbling degni di un mago per il controllo della palla e la precisione al millimetro nel passaggio (per non parlare dei gol direttamente dal calcio d’angolo).
È bello che debba ricordarlo io, che il calcio non lo seguo, ma che so esattamente cosa incarni per svariate generazioni di ragazzi, quel piccolo (poco meno di 170 cm cm e baricentro basso) angelo dai capelli ricci, antieroe democratico al quale la fortuna diede piedi stupendi, velocità e spavalderia abbondante per navigare fra ricchezza, figli legittimi e non, cocaina, problemi con il fisco, impegno politico, molte donne e una eredità familiare ingombrante in termini sociali e relazionali. Diego non è il classico eroe che fa il compitino a casa, che si fa portatore di bontà e cieca rettitudine. No, lui è capace di tutto, di controverse polemiche, di esempi non eccelsi, di difendere gli svantaggiati e farsi fotografare con i boss più temibili. El pibe de oro cavalca le luci e le ombre e supera i limiti, nel bene e nel male. Mentre si domanda, dal letto di ospedale, se il pubblico lo possa ancora amare, è già letteratura.
A lui sono stati dedicati luoghi, monumenti, fuochi d’artificio, chiese e persino altari, a lui Napoli deve riscatto e sogno ed è a lui – controverso – che in periodo di crisi si rivolge il sogno e la speranza disperata dei calciatori della vita.