Una prostituta in pensione ospita, un po’ per passione e un po’ per soldi, bambini e ragazzi figli di donne sole (in difficoltà o che fanno la vita). Arriva da lei anche Momò, un bambino africano orfano e solo, afflitto dalla nostalgia del suo paese, dal vizio di doversela cavare anche a costo di imbrogliare, e accompagnato da un amico immaginario molto speciale (nessuno spoiler). Nel passato della protagonista la sofferenza legata ai campi di sterminio nazisti e alla fuga per la vita.
Questo l’intreccio raccontato da La vita davanti a sé (The Life Ahead), diretto da Edoardo Ponti, prodotto da Palomar e distribuito da Netflix (fotografia degna di nota di Angus Hudson).
Tratto dal romanzo di Romain Gary, scritto sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, è intitolato La vie devant soi (in italiano La vita davanti a sé, edito da Neri Pozza), già vincitore del Premio Goncourt nel 1975, il film di Edoardo Ponti è in fondo semplice, come quelle torte dagli ingredienti sicuri, capace di ispirare tenerezza, qualche sorriso e, infine, amare riflessioni. Potrebbe finire tutto così, senza infamia e senza lode, ma alcune scelte, di cast e stilistiche, rendono la pellicola un piccolo gioiello: Momò, il controverso bambino protagonista della storia, è interpretato da Ibrahima Gueye con una gioia apollinea particolare, capace di esaltare la regia e trasformare in oro anche i silenzi della Loren. Il giovane Gueye gioca con gli spazi, pedala in bici e illumina lo schermo con il mento proteso in avanti e un sorriso disarmante. Riempie lo spazio (poco) lasciato libero da Sophia Loren con una gentilezza e una sicurezza che ricordano da vicino i bambini di De Sica sul grande schermo.
Si muove a Bari, in una periferia distratta e sbiadita, fra spacciatori nostrani, emigrati gentiluomini (dolce e struggente il personaggio di Babak Karimi, l’artista dei tappeti), e il mare, il personaggio di Madame Rosà (proprio con l’accento sulla A). La Loren/Rosà balla, si arrabbia, si smarrisce (fisicamente e mentalmente), e seduce con una robustezza attoriale che non è solo esperienza di chi fa quel mestiere da tanto, ma anche il frutto di un atteggiamento giovane nel confronti di un ruolo che ama (e si vede).
Il profilo della protagonista femminile – sia etico, sia fisico in termini di trucco e primi piani – è seducente, materno e controverso al medesimo tempo. La Loren compie sempre il miracolo di farci innamorare, stringe la mano alla multiformità del mondo, al sottobosco universale degli esseri umani al margine (il vero sale del mondo: la diversità), e diventa l’ingrediente segreto di una pellicola che poteva essere un rifacimento modesto del film di Moshé Mizrahi (con Simone Signoret, 1977), che poteva essere penalizzata da certi tagli forse un po’ affrettati, ma che invece piace per quella certa classe propria di chi sa fare bene.