Poche persone mi hanno accompagnato nella vita come Filumena. Oggi ho la sua età, ma siamo donne apparentemente diverse. Eppure, quando mi sento stanca, penso a lei. Alla prima volta che ci siamo conosciute, ascoltando un disco a casa della Signora.
La Signora (di cui conobbi il nome, Vincenza, dal manifesto funebre) era una vecchia matrona napoletana uscita da Cent’anni di solitudine, forse arrivata in Pignasecca un secolo e mezzo fa direttamente da Macondo, col suo vestito nero, i capelli raccolti con forcine e retina, il caratteristico naso a pechinese ed il borsello con il fazzolettone di cotone, le foto dei morti, il rosario ed i mazzi di chiavi di casa e del negozio. La vedo ancora scendere al Binario 4 della Cumana, da un treno a vapore che portava il ghiaccio, magari per don Peppe d’e granit e limone, quelle da 50 lire, che se eri fortunato ti capitava un pezzetto di scorza, amara, gelata, che prolungava il fresco della granita.
La Signora mi faceva paura. Era sempre tutta nera, torva, non parlava, non aveva mai un singulto di umanità nello sguardo. Quando parlava, se non era nel suo negozio di Sali, Tabacchi e Valori Bollati, era a casa per ricordare di quando il duce le diede il premio per i bimbi più belli (e su questa affermazione a mio padre si alzava il sopracciglio sinistro, ma lo capivamo solo noi due) che poi era il bonus figli alla patria.
Sette figli. Due coppie di gemelli e tre “sfusi”, non ricordo più quanti aborti, narrati come altri trofei della sua potenza generatrice!
Sette figli. Tre maschi e quattro femmine, tutte sciagurate, causa del suo lutto perpetuo.
Rosa, la bella, le era morta fra le mani. Come una Ursula Buendía partenopea, quando l’aveva vista soffocare in pieno shock anafilattico, si era limitata a dire “Nun chiammat o mierico. Dio vede e provvede. Ce penz Iss”. Nessuno uscì di casa, nessuno chiamò un medico. E Dio si prese Rosa, aveva circa 40 anni ed un dolce sorriso che ricordo dispensare come le caramelle che regalava ai bambini quando era alla cassa del negozio.
Patrizia. Ne ho conosciuto l’esistenza solo negli anni 2000. Era la figlia ripudiata. Lei si era innamorata di un operaio e “Pe so piglià se ne fujette da casa”. Nessuno la cercò mai più. Nessuno la informò della morte di Rosa, né di quella dei suoi genitori.
Maria. Lavorava alla libreria della stazione, prendeva il tram ogni mattina e poi la sera accudiva i maschi di casa. Finché si fidanzò col figlio del proprietario e questo non stava bene, così mammà intervenne prontamente, la licenziò dal posto di lavoro, dal fidanzato e dalla vita civile. Prese il posto di Rosa alla cassa. Per tutta la vita. Nessuno si oppose, nessuno ci pensò più di tanto. Nessuno la vede vagare mmiez e vichi con l’osteoporosi, avvinghiata al carrello porta spesa.
E poi la più piccola, la più fragile, Mariafrancesca. Con le cinque piaghe nella carne e nella testa. Bella, luce di un gineceo luttuoso, solare ed innamorata fino a che le si spezzò il cuore scoprendo che le fedi nuziali che il fidanzato nascondeva nel cassetto del cruscotto non erano per loro due. “Iss se sposa a n’ata!” Esaurimento, ospedale psichiatrico, elettroshock. Chissà se era successo col fidanzato o in ospedale psichiatrico, ma fatto sta che una domenica uscì dal bagno grondando sangue e con un feto in una bacinella. La Signora disse “Nun chiammat a nisciun”, ma un’anima buona, non di famiglia, la portò in ospedale e, probabilmente per lei, non fu un bene perché vive in un ospedale psichiatrico su una sedia a rotelle da più trent’anni ormai. Ne ha settanta.
Malgrado le mie sensazioni infantili di timore avessero tutto sommato il loro perché, mia madre era amica della Signora, la Signora stimava molto mio padre e mio padre accontentava sempre mia madre. Cerchio chiuso.
Così una domenica al mese si andava a pranzo dalla Signora.
Filumena Marturano è una commedia teatrale in tre atti scritta nel 1946 da Eduardo DeFilippo. La protagonista, proveniente da una realtà familiare socialmente disagiata e con un passato di prostituzione, lotta con le unghie e con i denti per il suo posto nel mondo, sia come moglie dell’uomo che per anni ha amato e accudito, sia come madre dei tre figli che ha ceduto in tenera età a istituti e famiglie perché avessero un futuro. Per tutelare la sua famiglia, disgregata e annientata, per aggrapparsi alla dignità dei sentimenti e dei legami, Filumena inscena un malore, con l’intento di farsi sposare in articulo mortis. Scoperta la finzione, rivela al marito recalcitrante, ora invaghito di un’altra donna, che uno dei tre figli può essere suo. Non dice però quale, unendoli tutti e tre in un destino comune («‘E figlie so’ ffiglie… E so’ tutte eguale…»). Andrà alla fine all’altare con l’uomo che ha amato e domato. In Filumena, Eduardo racconta non solo la miseria dei vicoli napoletani di un tempo, non solo il dopoguerra, la prostituzione, la fatica della fame che oppone i membri di una famiglia (riempirsi la pancia o stare uniti ma destinati alla fame?); ma anche l’istituto familiare che si disgrega e frantuma sotto i colpi della storia, dell’economia in affanno, degli egoismi e della naturale evoluzione connaturata a tutto ciò che è umano e si trasforma. Filumena è una grande eroina, alla pari di Medea o Cassandra, che viene chiamata dai tempi e della storia a dare forma al proprio destino, alla propria figura nel mondo. Per la prima volta la donna del teatro dialettale diventa donna del teatro del mondo, e parla un linguaggio universale (questa la forza di Eduardo). Per dirla con Simone De Beauvoir, Filumena intuisce che deve diventare donna a modo suo e non secondo le regole e le leggi degli uomini. Il personaggio è stato interpretato da Regina Bianchi , Pupella Maggio, Valeria Moriconi, Isa Danieli, Lina Sastri, Mariangela Melato, Mariangela D’Abbraccio, Sofia Loren, Joan Plowright, Katy Jurado, Heloisa Helena e Yara Amaral. |
Dopo pranzo, riordinata la cucina, invitava gli ospiti in salotto ed imponeva il religioso ascolto del disco di Filumena Marturano. Raramente faceva un breve commento ad alta voce (consentito solo a lei), o ripeteva una battuta con lo sguardo agli altri uditori, quasi per verificarne l’attenzione. Filumena, don Dummì. Ognuno nella vita ha il suo don Dummì. Una persona che non sa far altro che rimandare il peso di una decisione, di un affetto, del diventare adulto. I Dummì sono dietro l’angolo per ogni donna che si ostina a cercare l’avventuriero monogamo, il bugiardo sincero ed il playboy fedele.
È che non si ascolta Filumena leggere la vita con i suoi occhi analfabeti e presentarcela nella sua prosa viva, sanguigna, quasi animalesca, presa com’è dal risolvere quotidianamente problemi primari di sopravvivenza. Filumena, precaria ante litteram: 25 anni per un “posto” nel mondo, per “m’arrubbà nu cugnome!”
Per sentirsi rispettabile, riuscita, per potersi finalmente lasciar andare. 25 anni per poter piangere, invece di piangersi.