In un’America più o meno immaginaria, divisa da una guerra civile a causa di una spaccatura netta fra separatisti e unionisti, un gruppo di giornalisti e fotografi di guerra si muove da New York a Washington in cerca degli scatti perfetti per imbrigliare la “storia” (quella con la S maiuscola).
Civil War, questa la pellicola di Alex Garland, già alla regia di Ex Machina (candidato all’Oscar nel 2016 per la miglior sceneggiatura e vincitore del British Independent Film Awards nel 2015), che ricorre alla bravura di Kirsten Dunst, Wagner Moura (Narcos la serie tv), Cailee Spaeny (Coppa Volpi a Venezia per l’interpretazione di Priscilla Presley nella pellicola Priscilla) e del bravissimo Stephen McKinley Henderson nel ruolo di un esperto e protettivo decano del giornalismo.
Mentre Jessie (Cailee Spaeny) segue il suo idolo Lee Smith (Kirsten Dunst) con la sua macchina fotografica, e un accanito giornalista (Wagner Moura nei panni di Joel) sogna l’intervista del secolo con un Presidente sbiadito al suo terzo mandato (dopo aver ordinato di sparare sui civili e aver sciolto l’FBI), la regia di Garland si muove spietata fra campo e fuori campo in una narrazione in cui l’obiettivo di precisione delle munizioni e quello delle camere si confondono.
l film è un drammatico, per quanto a volte logorroico, omaggio al giornalismo di guerra (in particolare allo scatto fotografico che ferma gli eventi per spogliarli del giudizio e restituirlo drammatico al pubblico). Impossibile non pensare ai grandi fotoreporter di guerra come Robert Capa, Joe Rosenthal, Larry Burrows o Nick Út. Ancor meno impossibile non ripercorrere gli avvenimenti del 6 gennaio 2021, quando i manifestanti pro-Trump assaltaromo il Campidoglio degli Stati Uniti.
Tante le scene emblematiche, citazioni eccellenti del cinema o della storia. L’incendio delle grandi metropoli americane, o dei rigogliosi boschi dello stato della Virginia, o le gigantesche colonne neoclassiche della Casa Bianca assediata, portano alla mente le scene del grande incendio di Atlanta di Via col Vento (anche quello frutto di una guerra separatista) o la sensazione di sconfitta della civiltà sentita da Rossella O’Hara nel ritorno a Tara (per la regia di Victor Fleming). L’istante in cui un folle suprematista bianco accatasta corpi di persone in una fossa comune, cita la grande tragedia dei campi di sterminio (e delle sparatorie suprematiste) e la rende viva costringendo la protagonista a strisciare sui corpi dei cadaveri per portarsi in salvo.
Nella pellicola il sangue non è mai guizzante, ma scorre relistico, denso e silenzioso, creando inquietudine e assenza di compiacimento. Il montaggio, che contrappone il mondo interiore della strana compagnia in viaggio alla panoramica visione delle città sotto assedio, smuove lo spettatore a una reazione straniante. Dalle emozioni dei quattro protagonisti alle visioni da drone dei grattacieli in fiamme, chi guarda è portato a immedesimarsi, quasi voglia avvertire del pericolo incombente chi vive la vicenda.
La scelta delle musiche appare centrale: il testo di America The Beautiful, fischiettato, accompagna il grande omicidio di una nazione intera. La fine di un sogno, quello americano.
Sulla strada dei protagonisti verso la Casa Bianca assediata, un paese lacerato: dal cinico suicidio della politica fino alle comunità umane che ricostruiscono il tessuto sociale partendo dalla solidarietà verso i più deboli e i più piccoli, passando per un terrore diffuso che non vede vincitori o vinti, bene o male, ma solo una globale perdita del confine fra ciò che è umano e ciò che non lo è.