L’ascolto dei canti del maestro Giuseppe De Marzi (presenti anche nel repertorio dello storico Coro Presanella di Pinzolo), più noto con il diminutivo di Bepi, oltre all’emozione musicale regala delle storie perché, come egli precisa, ogni canto deve raccontare una storia. Ne ha scritti e musicati tanti per descrivere momenti delle stagioni, per esorcizzare il ripetersi di guerre e per combattere con le armi del musicista le ingiustizie di un mondo che guarda spesso con pessimismo. L’ultimo canto del repertorio dei Crodaioli, prima dello scioglimento del coro che ha segnato un’epoca con le innumerevoli presenze nazionali e internazionali, quasi un commiato che sancisse la funzione sociale della musica, parla di migranti. La capacità pittorica del maestro Bepi riesce a rappresentare una situazione drammatica con poche parole precise, ponderate come tutta la sua produzione letteraria:
I Bambini del mare
hanno gli occhi di conchiglia,
le scarpine di pezza cucite dalla mamma
prima di partire, prima di morire.
I Bambini del mare
sono un’ombra sulla riva,
i capelli di sole baciati dalla mamma
prima di partire, prima di morire.
Dopo questo avvio che allude al traumatico distacco dalla propria terra verso un futuro terribilmente incerto, l’autore introduce l’amara considerazione sul mare da sempre percorso come rotta di speranza e di morte. Tutto però riassunto poeticamente nel moto ondoso:
Ora l’onda ritorna alle rive di levante a cercare, a cercare altre lacrime di mare.
E poi la tragica conclusione sulle speranze deluse di chi cercava libertà e sorrisi in luoghi chiusi da muri.
Le manine di sabbia cercavano prati fioriti
e giochi nel libero vento delle città senza la guerra.
Le manine di sabbia cercavano cieli sereni
e il pane: sorriso di amici nelle città oltre i muri e i soldati.
I Bambini del mare, del mare, del mare.
Un testo da leggere anche senza musica, però talmente incorporata nelle parole che sembra trapelare da esse: poesia visiva e musicale, due arti in una, come la definiva Montale.
Giuseppe De Marzi, Bepi nei suoni veneti. Musicista, compositore e poeta per i testi dei suoi canti che sono più di cento. Organista di chiesa fin dall’adolescenza. Insegnante nei Conservatori di Vicenza e Padova. Clavicembalista dei Solisti Veneti per oltre vent’anni. Fondatore e direttore del coro maschile I Crodaioli di Arzignano, il suo paese di nascita nella Valle del Chiampo, la più occidentale del Vicentino. Chiamato da padre David Maria Turoldo a collaborare nel lavoro musicale dei Salmi, gli Inni e i Cantici per la liturgia cattolica. Uno dei suoi primi canti corali, “Signore delle cime”, è stato tradotto in una decina di lingue e sono molti gli arrangiamenti vocali e strumentali, anche nei preziosismi jazzistici e nelle elaborazioni sinfoniche. Le Edizioni Curci di Milano hanno pubblicato nove raccolte delle sue storie cantate e proposto altrettante registrazioni discografiche dei Crodaioli con le Edizioni Carosello. La Casa Musicale Carrara di Bergamo ha pubblicato, oltre ai Salmi, gli Inni e i Cantici turoldiani, anche le sue Sacre Rappresentazioni natalizie per le Scuole Materne e Primarie. Lasciato Arzignano da una decina d’anni, abita a Vicenza in un silenzioso e boscoso quartiere della periferia, dove si apre la campagna che, tra risorgive e borghi operosi, sale all’Altopiano di Mario Rigoni Stern (con il quale a composto il canto Volano le bianche che ricorda la guerra sull’Ortigara). |
La musica è passione da sempre, vocazione o libertà?
Subito è stata obbedienza ai genitori. Mia mamma era di Milano, figlia di un artigiano con il posto fisso alla Scala. Bellissima, le era stato dato il nome di un’Opera di Catalani, Edmea. Lavorava nell’amministrazione di una prestigiosa ditta di filati. Mio papà, Giovanni, detto Nini, tecnico collaudatore di una grande officina meccanica di Arzignano, era prestante, cordiale e instancabile. Figlio di un fornaio con lontani antenati abruzzesi, della Marsica, suonava bene il mandolino e i suoi due fratelli suonavano il violino e il pianoforte. Uomini liberi, fantasiosi, sempre pronti ad aiutare i bisognosi, i perseguitati. Così i miei genitori, che per me hanno programmato lo studio del pianoforte, allargato poi alla composizione. Credenti, mi hanno spinto al servizio organistico parrocchiale. Ma studiando ho seguito anche la mia vera passione, la letteratura in tutte le sue espressioni.
Lei è noto anche per la libertà di critica, addirittura per l’arguzia che tocca, si racconta, gli estremi dell’ironia con metafore pungenti.
Ho ricordi dall’infanzia molto chiari, di quando correggevo gli amici di famiglia che usavano male il dialetto. Conosco la ventina di parlate venete, ma pratico anche un poco di milanese, confidato da mia mamma che intonava filastrocche per giocare con noi bambini, Angela, Luigi e Antonio. Suonavo ogni giorno, per ore, gli studi assegnatimi. Ma la sera, mia mamma sedeva vicino al pianoforte dicendo “Adesso suona un poco per me, quello che vuoi”. E io inventavo suonatine diverse, secondo il giorno, la stagione, l’umore in famiglia. Mio papà, che andava anche molto lontano per il suo lavoro specialistico, tornava con la curiosità di ascoltare i miei progressi pianistici. Amava molto la malinconica felicità di Mozart, ma anche la Mazurka di Migliavacca, che suonavo con variazioni improvvisate.
Per i suoi lavori musicali e per i suoi concerti, anche per i suoi scritti, ha ricevuto premi, onorificenze, nomine prestigiose. Si sa però che non le ha mai elencate o vantate.
Non ho mai ostentato orpelli. Porto raramente la giacca, perciò non saprei dove appenderli. Sono cittadino onorario di tanti luoghi, anche suggestivi, nelle valli e sulle montagne. Ho espresso sempre riconoscenza e rispetto verso chi mi ha donato fiducia e affetto.
È stato nominato commendatore dal Presidente Mattarella che nell’occasione ha invitato I Crodaioli a cantare nella Cappella Paolina del Quirinale.
Pochi giorni prima era passata la tempesta Vaia. Per il Presidente e i suoi efficientissimi collaboratori, più alcuni invitati, abbiamo cantato le mie storie di alberi, di montagne, di pace e di speranza. Anche di fede. Il Presidente si è dimostrato preoccupato per le Dolomiti devastate, rivelando profonda conoscenza dei luoghi e perfino una grande preparazione storica e scientifica sulla situazione dei boschi, delle foreste. Ha espresso con tenerezza, parlando accoratamente, l’affetto e l’ammirazione per i veri montanari. Ha anche detto di conoscere le narrazioni di Mario Rigoni Stern, informandosi piacevolmente del canto che avevo composto con le sue parole, che naturalmente abbiamo intonato.
Allora, raccontiamola, questa storia.
Mariostern, come usavano chiamarlo in Asiago, mi ha cercato dopo avere ascoltato uno dei miei primi canti, “La contrà de l’acqua ciara”, che diceva del triste abbandono della montagna. Siamo diventati amici per comuni ideali, e mi ha voluto vicino nella difesa di prati e boschi. Facevamo serate insieme, anche lontano dal Veneto: lui a raccontare, io a suonare e, se possibile, cantare. Mi ha suggerito argomenti e immagini, specialmente durante la stesura di Arboreto salvatico, il suo decimo libro. Così ho inventato storie di betulle, di faggi, abeti, tigli, anche con i nomi cimbri, nella parlata caratteristica di una parte del Veneto montano. Mi ha dato dei versi liberi sulla tragedia dell’Ortigara nella Grande Guerra, sui massacri per le battaglie inutili del giugno 1917. L’Ortigara è una cima che incombe sul Canale del Brenta, detto anche Valsugana. In quel giugno c’è stata una imprevista nevicata che ha fermato tutto, e sulle trincee della disperazione sono volate le pernici col piumaggio invernale, le Bianche. “Volano le Bianche nel silenzio dell’Ortigara. La montagna è rifiorita: è l’alba sull’Ortigara. Volano le Bianche, le Bianche, le Bianche”. La musica è venuta quasi subito, con l’invocazione di due note a salire sul nome, e delle liberazioni contrappuntistiche per il silenzio stupefatto dei voli.
Dice della musica che è venuta quasi subito. Cosa intende per “venuta”?
La musica, il canto, la melodia, viene quando vuole. Se la si cerca diventa un’azione meccanica, artificiale. L’ispirazione arriva nei momenti più impensabili, e bisogna prenderla, assimilarla, goderla subito intimamente per sviluppare poi, nel tempo, anche il lavoro armonico e timbrico, per elaborare ciò che è stato donato dalla felicità o dalla malinconia. Goffredo Parise, il grande giornalista e scrittore vicentino che ha donato al mondo “I sillabari”, diceva che “La poesia è come l’amore: va e viene quando vuole lei”.
De Marzi obbediente e un poco fatalista, dunque.
Ho obbedito solamente a tre persone: ai miei genitori e al maestro Claudio Scimone suonando nei Solisti Veneti.
Seguendo le molte interviste, anche in video, si rimane stupefatti davanti alla sincerità, alla libertà allusiva, inattesa per un credente e praticante, come ama definirsi.
Eccola, la libertà conquistata con il mestiere musicale. La musica deve essere comunicazione conclamata, come la letteratura, soprattutto la poesia. Trattenere le idee, le parole, i gesti, nascondere i desideri, è farsi violenza. Ho amato il jazz, pur non raggiungendo la necessaria capacità armonica sulla tastiera. Sono andato in Germania a suonare il Pianobar. La domenica chiedevo di suonare l’organo nelle chiese, dove ho imparato la severità dei Corali. E la gente cantava, oh, quanto cantava! L’Assemblea orante che si esprimeva nella pienezza delle quattro voci, femminili e maschili. Intercalavano le voci bianche con raffinate variazioni bachiane! Messe di tutta la comunità. Una delizia rarissima, trovata poi, con altre musiche e altri procedimenti, in Finlandia, in Canada, perfino in Australia.
E il ricordo di padre Turoldo. Ci confida perché e come è iniziata la collaborazione? E quanto è durata?
Durante l’esilio seguito a Nomadelfia, il frate poeta ha vissuto nelle chiese del mondo l’emozione del canto dei Salmi in forma strofica, con ricostruzioni e versificazioni adatte all’uso collettivo delle voci piene, soprattutto con melodie facilmente memorizzabili. Tornato in Italia grazie anche all’interessamento di Ermanno Olmi, ha iniziato subito il lavoro. Distici, terzine, quartine e quintine in versi piani, mai tronchi, che aborriva come nazisti, decasillabi, endecasillabi regolari, simmetrici, facilmente memorizzabili con purissime melodie di sapore tradizionale, perciò subito nella possibilità della diffusione popolare, come nelle devozioni; melodie di immensa bellezza, inventate da un ispiratissimo giovane intellettuale accorso nell’abbazia di Sant’Egidio a Sotto il Monte. Ma il giovane così musicale, Ismaele Passoni, non aveva dimestichezza con la scrittura per gli accompagnamenti armonici, organistici. Padre David mi ha chiamato a collaborare alle prime pubblicazioni con la Casa Musicale Carrara di Bergamo. Ma la Chiesa, purtroppo, ha ignorato e perfino osteggiato la nostra sincera, generosa e inebriante fatica. Padre Turoldo è morto nel 1992, in febbraio. Il suo ultimo saluto è stato “Bepi, ti raccomando i Salmi!”.
I Crodaioli, al compimento dei sessant’anni dalla fondazione, hanno smesso l’attività. Qual è stato l’ultimo canto?
Dopo migliaia di concerti che ci hanno portato anche di là degli oceani, dopo tante incisioni e tante pubblicazioni, con quasi trecento cantori che si sono avvicendati negli anni, nel mutare delle abitudini e degli atteggiamenti del pubblico, non era più il caso di continuare nell’impegno di raccontare la terra, la vita, la gente, la fede nell’espressione corale. Abbiamo cantato soprattutto le speranze dei poveri, i sogni della pace, della fratellanza, il dolore e la follia delle guerre volute dai criminali che trafficano armi. Abbiamo cantato l’armonia delle montagne, delle valli, lo stupore delle stagioni. Abbiamo chiesto a Dio, con melodie piane e pensieri convinti, di lasciarci andare, quando sarà, sulle montagne dell’Infinito. L’ultimo canto, “I bambini del mare”, piange con i migranti del mondo.