Si chiamano Dizi e sono gli sceneggiati turchi, parenti stretti delle telenovelas sudamericane e delle soap opera statunitensi, più vicini per durata, e produzione, agli sceneggiati italiani degli anni d’oro della Rai. I loro protagonisti sono bellissimi, si chiamano Demir, Sanem, Müjgan o Fikret, e le musiche sono ridondanti e drammatiche, mentre le location, raramente ricreate in studio, si ambientano nelle grandi città o nella campagna (sempre contrapposte come valori in lotta).
L’origine dei Dizi è ormai lunga e si intreccia con la storia della turchia: il cinema turco degli anni Cinquanta e Sessanta deve il suo successo alla rinascita economica del paese, rappresentato anche dalla nota strada Yeşilçam sokak, situata nella zona europea di Istanbul, ormai sinonimo dell’industria cinematografica. Da quel momento il cinema traccia la strada identitaria (con alcuni successi anche importanti, se pensiamo alla pellicola L’estate arida di Metin Erksan al Festival di Berlino del 1964). Dieci anni dopo, nel 1974, viene girata la prima serie televisiva. La TV attacca il successo del cinema – spesso imitando la televisione occidentale – e gode della liberalizzazione diffusa: in Turchia in quel periodo vengono prodotte ogni anno 300 pellicole. Gli anni Novanta sono però lo spartiacque fra la vecchia televisione e la nuova.
L’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan e la guerra in Siria sanciscono un incremento dei prodotti televisivi maggiormente in linea con la visione meno europeista (le donne con il velo o il fazzoletto, i valori della campagna, legati alla cultura patriarcale così cara ai conservatori, la libertà della donna, la sacralità della maternità in chiave nazionalista) e una interruzione della produzione televisiva siriana, lentamente ma inesorabilmente rimpiazzate dai Dizi turchi (a volte doppiati in siriano). Se è vero che i Dizi spesso mettono in scena eroine autonome, istruite e ribelli, spesso poco gradite a Erdoğan e alla sua censura, è anche vero che la loro diffusione della storia ottomana appare utile e dunque tollerata in quanto strumento sociale (soft power).
Il Dizi più famoso è Muhteşem Yüzyıl (Il secolo magnifico), con duecento milioni di spettatori in oltre cinquanta paesi. Poco amato da Erdoğan, così come il colossal Diriliş: Ertuğrul (Resurrezione: Ertugrul), lo sceneggiato viene comunque elogiato dal Presidente perchè utile alla sua politica di controllo della società civile. Di altro parere sembra essere stato Abdul Aziz al-Sheikh, gran mufti saudita che ha lanciato una fatwā contro la casa di produzione MBC, che cura l’importazione dei Dizi nel suo paese. Ma perchè questo odio? E perchè questo doppio atteggiamento da part dell’autorità nazionalista di estrema destra in Turchia?
Al centro le figure femminili: la signora Hünkâr, che in Terra Amara (Bir Zamanlar Çukurova) vive una vita votata al marito infedele e al figlio volitivo e violento, si risveglia in tarda età ad un amore provato e sacrificato in gioventù. Züleyha, giovane sfortunata e venduta come un oggetto dal fratello, che decide di fuggire da un matrimonio combinato. Müjgan, medico affermato alle prese con un matrimonio finito. Behice, donna volitiva e caparbia, capace di muovere gli altri come marionette grazie alla sua intelligenza e al suo carisma. Sevda, ex cantante e vero amore del padre di uno dei protagonisti. Saniye, che compie una vera e propria evoluzione assumendo un ruolo lavorativo apicale nella tenuta della famiglia Yaman.
Tutti i personaggi citati, che vivono nella Turchia degli anni ’70 e ’80, più precisamente tra Istanbul e Çukurova (in provincia di Adana), esprimo il conflitto tra kemalismo e islamismo (secolarismo e tradizione), fra libertà e Diritti Civili e Islam inteso come strumento per la segregazione del corpo e della vita femminile in seno all’istituzione familiare. Il motore dell’intreccio, in una fabula spesso banale e lineare, sono le donne, come del resto insegna il Premio Nobel Orhan Pamuk che in Neve (Kar) muove la storia grazie a figure di donne essenziali per il protagonista.
Per quanto le serie televisive arrivate in Italia dalla Turchia siano dei sottoprodotti dal valore relativamente basso, il pubblico italiano (e prima di lui quello sudamericano e serbo) riconosce loro una affabilità attraente, dovuta non solo a elementi come la bellezza dei protagonisti e la fotografia accesa e smaccata; ma anche a meccanismi semplici alla base delle storie.