Mentre nel mondo di Pirandello i tipi umani, con relative maschere, occupavano intere pagine, oggi sui social network le maschere, e le persone, sono protagonisti di curiosi, quanto impietosi, post di cui tutti, più o meno, siamo spettatori.
Se è innegabile, come sostenne il compianto Umberto Eco nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”, è anche però vero che attraverso di essi spesso ci si avvantaggia di facilitazioni che altrimenti, specialmente per i meno abbienti, sarebbero impensabili. Pensiamo agli interscambi linguistici, alla facilità con la quale una bugia mediatica viene a volte creata, ma anche smascherata, o alle discrepanze fra bugie “istituzionali” e realtà “vere” che i social ci mettono davanti in modo impietoso.
I social network sono così, lenti di ingrandimento infallibili che deformano una realtà già di suo esagerata. Megafoni di una natura umana che merita un asteroide sulla noce del capocollo, come direbbe Lino Banfi; strumenti che, nonostante lo stupore di Michele Serra, hanno prodotto ormai da svariati anni professioni dignitose in grado di dare voce ai cittadini, alle aziende o alle notizie, sempre meno ad appannaggio del cartaceo tradizionale.
In queste vetrine al vetriolo possiamo trovare svariate tipologie di comportamento: dal “camerata” in ritardo di quindici anni (“era meglio quando c’era lui”) al “compagno” in smoking che, pubblicando un selfie dalla Maserati di babbo, commenta i fatti incresciosi del mondo, passando ovviamente per il buono a tutti i costi (“la guerra è sbagliata”) e il sostenitore delle cose naturali, dalla famiglia alle torte con una puntata d’obbligo all’olio di palma.
Poi abbiamo quelli che si fotografano con tutti, con la paura di non esistere, quelli che “una bocca a culo di gallina” al giorno toglie il medico di torno, oppure quelli che “non sto su Facebook” ma spiano dall’account della compagna, oppure quelli che “votate per me. È semplice: cliccate a destra, poi a sinistra, poi due volte a destra e infine dritti verso la condivisione”.
E poi ci sono Loro. Gli intellettuali di riflesso, quelli che “allo scrittore/scrittrice gli/le do il tu”, quelli che “se parli con il filosofo sei un filosofo pure tu”. Quelli che sono imbronciati e defilati e non li puoi capire perché troppo profonda la loro anima (e si vede dal fatto che usano sempre un sostantivo o un verbo usati l’ultima volta nel 1923 da Benedetto Croce dopo l’influenza). Quelli che “mi faccio il selfie cercando di sembrare inadatto/a al social”, che “ho capito il mistero della vita, perciò ho l’aria annoiata”. Quelli che “mi hanno fotografato mentre leggevo Kant sulla Metro B”.
E poi i pettegoli, i razzisti, gli omofobi, i politicizzati e i bigotti. Alla fine non ci siamo inventati nulla.
Non siamo altro che isteriche ombre di una società annoiata che si riscopre spaventata davanti alla consueta, e anche un poco noiosa e nichilista cattiveria umana. Per dirla con Giovanni Arduino e Loredana Lipperini (Morti di fama, Corbaccio, 2013): “miliardi di frammenti che provano a fare di se stessi un centro”.
Quello che ci rimane è Siri, che gli fai una domanda e ti risponde nel modo più corretto possibile.
By Matteo Tuveri