Giuseppe Vetromile è nato a Napoli nel 1949. Svolge la sua attività letteraria a Sant’Anastasia (Na), città in cui risiede dal 1980. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti sia per la poesia sia per la narrativa in importanti concorsi letterari nazionali.

Ha pubblicato più di venti di libri di poesie, l’ultimo dei quali è Proprietà dell’attesa (RPlibri, 2020)

Ha ideato e gestisce il sito “Transiti Poetici”, sul quale pubblica recensioni e note di lettura di libri di poesia e di narrativa. Ha curato diverse antologie. Attualmente sta curando l’Antologia Poetica Virtuale Transiti Poetici in più volumi (giunto al XLI Volume). È il fondatore e il responsabile del Circolo Letterario Anastasiano. Fa parte di giurie in importanti concorsi letterari nazionali. Organizza incontri ed eventi letterari. È l’ideatore e il coordinatore del Premio Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia” (giunto alla XVIII Edizione). È presente in rete con diversi blog letterari (Circolo Letterario Anastasiano, Transiti Poetici, Taccuino Anastasiano, Selezione di Concorsi Letterari), ed inoltre collabora attivamente con associazioni e operatori culturali del territorio nella realizzazione di eventi letterari di rilievo, prodigandosi anche nella ricerca di nuovi “talenti” poetici.

La città ci ha abbandonato
 
E perché dunque sopravvivere ancora
– allignare forse? – dentro i fumi di cìodue
ai quattro lati della periferia grigissima?
La città non è più quella,
ci ha esiliato in uno spazio cianotico
tra nafte e lattine,
copertoni bruciacchiati in mezzo ai crocevia
 
(solitari ora noi
come quella planata di cartastraccia
sopra le immondizie: così triste!…)
 
Come pensare all’amore, amore,
mio ideale, dove più cercarti:
in quel cimitero d’auto sfasciate?
O dietro il rombo arrogante
di quell’autocarro?
 
Sappiamo ormai ben morire (vagare?)
più di fastidio che di vera droga,
lungo i marciapiedi desolati.
 
La città ci ha abbandonato!
 
Se t’incontrassi all’angolo del battilamiera
forse riconoscendoti
ti condurrei altrove!
















Non passa alcuna forma
 
Da questa parte della città non passa alcuna forma
e la carnagione sfuma verso il tramonto
io con questo compagno
alla fermata dell’autobus
medito su uno spazio congruo di sembianze
appena velate dalla foschia serale
 
Mi mostra il suo talismano d’osso
intanto
il vecchio pensionato alla mia destra
speranzoso d’un passaggio estremo
verso la stamberga
giù alla periferia
 
Parla molto della vecchia stagione
che lo vide principe tra le fate
ed ora in disarmo e senza neanche un minimo tesoro
 
Così stiamo attenti tutti e due
che sopraggiunga finalmente il mezzo
un numero qualsiasi
purché vada laggiù verso il porto
e che ci raccolga dalla panchina umida
e abbia fugace una corsa senza più soste
lungo il corso cupo e ormai deserto
 
Ma ancora non passa
non passa!
alcuna forma ad un bus somigliante
e dalla nebbia i due fari bianchi ancora
non emergono a salvarci
 
S’aggiunge una vecchia al vecchio
tremano quelle due linee di labbra e borbotta
un dispetto verso l’autista
od il tranviere
che non viene
 
Ma non passa alcuna forma
e noi attendiamo invano
qualcuno
o qualcosa
che ci conduca sani e salvi
a quella casa
La città dentro
 
Improvvisa una mano di vento percuote la strada
strappa cartacce dai ciottoli sconnessi
: un romanzo a facciate multiple
risapute
poi la città si contorce nelle sue vie affogate
e ristagna
 
Abita la garitta abbandonata il vecchio Muhammed Alì
ha preso il posto del fu Pasquale la mitraglia
che andava sgattaiolando con il suo carrozzino
colmo di ferrivecchi giù alla marina
 
Ottuagenari caracollano lungo l’inesistenza
desinenze amministrative vietano il sorpasso
o il procedere nelle corsie preferenziali
(a nulla è dovuto il palo del divieto)
 
intanto
 
la discesa verso la città è livida e discontinua
a tratti intravedo barlumi di quell’altra
che sta sotto la pelle antica
invisibile agli occhi dei frettolosi
 
e invade le viscere e ripercuote a volte
il duro guscio del cuore
 
Poi scivolo senza saperlo
nel baratro osceno di quell’ammasso
divenendo io stesso macchina metropolitana
insensibile ai boati del sole
o agli scrosci di stelle sul marciapiede
 
Io sconnesso da ogni rete burocratica
mi inietto nelle vene della città parallela
un male arcigno incombe sui caseggiati
biancastri o nerastri ma
mai colorati col sorriso dei prati
 
Ho da raggiungere l’obiettivo in quattro e quattr’otto
il resto del tempo se avanza
sfuma nei volteggi delle rondini a grappolo
su uno stupito maschio angioino
che traballa sotto le scavatrici
dei tesori sotterranei































di questa città è mente locale il fumo edilizio
e gli scannati anfratti giù al porto
indistinguibili tra le sirene spiegate al vento
 
e i passi rimbombanti dei re mercenari
al calare dell’ennesima notte borbonica
 
*
 
Non c’è più infinito al di là del porto
si è avvicinata troppo la banchina al mio mare eterno
e occulta le onde del tempo
l’eco di mio padre che sognava le americhe invano
ma sognava
 
e non c’è spazio nei millimetriquadri del mio stare
obliterato osservato approvato
mi delineo invano sul bordo tagliente del marciapiede
scortico l’ultimo mattone di tufo
l’estremo detrito impiastricciato sotto le suole
e sento il divenire pallido di una luna setacciata
dal cielo raggrumito
pulviscolo per moderni attrezzi di volo sconfessati
 
io romantico ancora mi aggiungo alla schiera
dei mille lampioni diritti
nostalgici pierrot a guardia di una città corrotta
 
di uno stare immerso tra silenzi e vomiti di parole
inutili
 
perché il vivere non è questa superficie abbagliante
ma il segreto sottofondo che ammalia
il canto e il colore che non esiste più
 
sulla faccia buona della terra
 
 
*
 
invece
 
l’orto di melanzane meraviglia solo lo spazio verde
se ancora esiste il silenzio dei pomodori cullati
dal fruscio di una mano che li sorprende maturi
d’un rosso che è il fiume sotterraneo della vita
d’un profumo che non sta più in noi
traditi dal duro cemento e dagli asbesti
dalle corruzioni delle mani e degli occhi
che cercano ricchezze blasfeme sul piatto
della terra
 
Ah quanta polvere cadrà ancora sulla città
quanta caligine e ombre e fantasmi d’ogni genere
quanta morte vestita perbene in giacca e cravatta
da affari d’oro!
 
invece
 
l’ulivo si scartoccia da solo
dimentico della cura dei figli
ma ancora pieno delle carezze dei padri
le nodose mani come rami e come radici
inestirpabili
tenevano la strada intera sotto il sole
e nei papaveri rossi il vento fin giù alle zolle
ne dondolava gli steli
 
il campo era sacro
la luna era congiunta alla notte
e il sole al giorno
le stelle tutte avevano un significato
 
un nome che abbiamo dimenticato
ora che il cuore è tutto pieno di ciarpame
 
e il vento più non ci racconta
com’era dolce il sogno e la fiaba
prima dell’addormentarci a sera