A dispetto della spettacolarizzazione che l’argomento cibo ha subito negli ultimi anni, per effetto di una di quelle mode più o meno effimere che tanto comodo fanno al consumismo, non si dovrebbe però dimenticare che dietro a ogni piatto, anche il più semplici, si cela un’identità culturale, una storia, una civiltà con i suoi usi e costumi. Esiste, per fortuna, un’editoria in grado di cogliere questi aspetti e dare spazio ai diversi aspetti della questione.
Il saggio che Massimo Montanari, docente di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, ha pubblicato per i tipi de Il Mulino, ripercorre la tradizione gastronomica felsinea inquadrata e spiegata all’interno e con le sue vicende sociali. Bologna “dotta” ma anche “grassa”, grazie alla sua posizione ai piedi dell’Appennino: nodo viario strategico sin dall’antichità, è stata un importante centro mercantile, anche per le derrate alimentari, e piazza d’incontro per culture di tutta Italia. Bologna città-specchio della Penisola e della sua cultura alimentare, quindi, e Montanari tratteggia un viaggio in questo universo cittadino che spiega le sua cultura gastronomica anche con il suo essere sede universitaria e importante centro commerciale, anche per vie d’acqua, grazie al sistema di canali che la collegavano all’Adriatico e la Pianura Padana. “Bologna la grassa” è un’immagine che nasce nel Medioevo in ambito francese e che non si riferisce tanto all’abbondanza del cibo consumato dai suoi abitanti, quanto alla varietà di alimenti e ricette che circolavano in città, dove ai mercanti di tutta Italia e anche oltre, si aggiungevano le varie “nazioni” di studenti universitari e professori, che introdussero i piatti delle loro tradizioni. A Bologna si potevano quindi trovare zuppe alla polacca e starne arrosto lardate alla maniera francese, ma anche pasticcini genovesi, ciambellette portoghesi e altro ancora, che dall’ambito universitario si diffusero ben presto anche sulle tavole dei bolognesi, almeno di quelli più abbienti. Questo “melting pot” gastronomico era possibile perché la città (come del resto tutti i luoghi dove si fa vera cultura) era aperta ad accogliere ciò che veniva fuori, in fatto di idee, usi e costumi, anche culinari.
Il volume di Montanari non è quindi un ricettario, o una storia dei piatti bolognesi più significativi, ma un ben più interessante saggio storico-antropologico che traccia l’identità e il quadro sociale di una città, anche attraverso i differenti usi a seconda del ceto, fra storia e gustose tradizioni popolari dal sapore di leggenda.
Atmosfere persino più raffinate nel curatissimo volume di Grandi Giardini Italiani, ampia raccolta di ricette regionali o familiari legate a un particolare territorio, ma soprattutto capaci di amalgamare la ricchezza della gastronomia italiana con la bellezza del paesaggio che l’ha vista nascere. Un modo per suggerire come anche l’anima, assieme al corpo, abbia bisogno del suo nutrimento. Grandi Giardini Italiani è il circuito creato nel 1997 dalla britannica Judith Wade, che annovera circa 140 dimore storiche (assieme ai loro splendidi giardini) disseminate in tutta Italia; il volume racconta quindi, attraverso una selezione di raffinate ricette, il cibo come elemento da godere nella bellezza di un paesaggio fatto di dimore storiche e giardini monumentali, plasmati da architetti, scultori, maestri giardinieri, e scorci meravigliosi che vanno dal Lago Maggiore alle colline toscane e al viterbese. Il volume non è quindi soltanto un ricettario, ma, grazie alle belle fotografie, molte delle quali a tutta pagina, è anche una piccola guida per conoscere queste meraviglie di architettura e paesaggio, alcune delle quali visitabili, come il Sacro Bosco di Bomarzo, la Reggia di Venaria, il Vittoriale, il Giardino Bardini, l’Orto Botanico di Catania. Idealmente aggirandosi fra alberi centenari e sapori dimenticati, si rivivono usi e costumi di una civiltà aristocratica che aveva la bellezza, in senso lato, come una sorta di ideale. Ogni giardino ha una sua ricetta che interpreta il territorio e la sua atmosfera, fa uso di ingredienti locali, ad esempio il pesce del Lago Maggiore o pistacchi di Bronte, e alle volte riporta alla luce accostamenti dal sapore rinascimentale, come le mele cotogne servite per accompagnamento ai piatti di carne. Ingredienti che non racconta solo un piatto, ma un’intera cultura. Oltre che dalle belle immagini fotografiche dei giardini monumentali, il libro è arricchito da un elenco di luoghi dove ritrovare i piatti tipici presentati. Un libro gastronomico che è anche una guida alla bellezza del paesaggio italiano.
Niccolò Lucarelli
Immagine di copertina: Annibale Carracci, il mangiafagioli, 1584–1585, Roma, Galleria Colonna Museo e Pinacoteca