Il gioiello, e la sua diretta imitazione, sono da secoli la manifestazione della fantasia e maestria umane applicate ai materiali pregiati e meno pregiati. L’accessorio, oro, argento, bronzo o acciaio, luccica sui decolleté più spregiudicati, esalta i polsi e le cravatte e si intreccia con la storia del mondo fra ricchezze e crisi economica.
Dalla produzione bizantina, caratterizzata da cromatismi audaci, alle linee appuntite del lungo periodo medievale, l’orafo artigiano svolge da sempre con profilo basso e alti risultati la sua “arte dei re”, così infatti definì l’oreficeria Étienne Boileau nel suo Livre des métiers, e accompagna la vanità dei potenti e dei nuovi borghesi attraverso lo stile naturalistico del Rinascimento, caratterizzato dalle mille catene e i mille pendenti dell’abbigliamento femminile, e quello roboante del Seicento con la sue chatelaine, placche applicate alle cinture dell’abito alle quali erano appesi oggetti, sigilli, libri e piccoli étui atti a custodire set per sbucciare la frutta.
Fra il 1674 e il 1676 George Ravenscroft lavora alla creazione di un vetro dalla consistenza dura quasi quanto quella di un diamante con l’intento di produrre una materia prima borghese, resistente e capace di imitare in tutto e per tutto la forma allotropica naturale del carbonio.Più avanti realizzerà il sogno di Ravenscroft il gioielliere tedesco Georg Friedrich Strass dal cui nome deriverà un’intera gamma di imitazioni luccicanti del diamante.
Alla fine del 1700, davanti alla Rivoluzione, il gioiello non si arresta. Si evolve a testa alta, inventa i charms a forma di ghigliottina e i girocolli di velluto rosso che simboleggia il taglio netto della lama sui colli aristocratici. Nell’Ottocento l’eclettismo della gioielleria produrrà la cosiddetta moda archeologica, rappresentata dai gioiellieri Fortunato Pio Castellani a Roma, Eugène Fontenay in Francia, Carlo Giuliani a Londra, specializzato in gioielleria smaltata, e Charles Lewis Tiffany a Manhattan. Quest’ultimo, dopo l’Esposizione Universale di Parigi del 1878, introduce nelle sue creazioni alcuni nuovi materiali denominati morganite, kunzite, tanzanite blu e tsavorite.
Fra l’Ottocente e il Novecento i cammei, le perle, le spille e le tiare reggono la haute couture del gioiello. Fanno il loro ingresso, durante l’ultimo lungo periodo vittoriano, che prelude al regno della bigiotteria e al ritorno dei materiali meno nobili, ma forse più adatti al gioco del design, i gioielli di pietre nere e ametista, adoperati dalla regina Vittoria e da Elisabetta d’Austria-Ungheria. Ciondoli recanti piccole trecce di capelli dell’amato defunto, preziosi mourning jewels che propongono teschi, ossa e stilemi dell’arte cimiteriale, memento mori riproposti nel periodo più recente da Damien Hirst, Alexander McQueen e Thomas Sabo.
Il Novecento crea la morbidezza e le linee delicate dell’Art Nouveau e del Liberty esasperando l’utilizzo del materiale meno nobile come accade nelle creazioni Bauhaus di Naum Slutzky. In questo imitatori degli antichi egizi e dei romani, inventori, i primi, della lavorazione del vetro a imitazione delle pietre nobili, e maestri, i secondi, nella creazione, come testimonia Plinio, di perfette finte perle, i creatori della bigiotteria del XX secolo danno vita al custom jewelry a partire dalla crisi del 1929. Elemento determinante nell’affermazione del gioiello “finto” è successivamente la nascente industria del cinema. Non a caso il set di Via col Vento (1939) vedrà una capricciosa Vivien Leigh indossare splendide creazioni di bigiotteria. In quel lungo periodo di crisi fra vecchio e nuovo, fra antica ricchezza e nuove e vecchie povertà, gli artisti Gene Verri e Alphred Philippe creano le loro autentiche finte meraviglie.
Alla fine delle Seconda Guerra Mondiale, a testimoniare la lenta ma graduale democratizzazione della società e la voglia di colore, dopo il grigiore delle restrizioni belliche, Trifari, emigrato da Napoli, produce bigiotteria per Mamie Eisenhower, mentre i grandi magazzini propongono spille hollywoodiane prodotte dalla Sarah Coventry, a Rhode Island, caratterizzate da eccessi di colore, di forme e di entusiasmo. Oggi veri e proprio pezzi da museo.
Negli anni ’60, Kenneth Jay Lane disegna e crea custom jewelry per Jacqueline Kennedy, Elizabeth Taylor e per la sacerdotessa della moda Diana Vreeland. Nel decennio successivo, pacifista e sportivo, regno dell’elastam e delle fibre sintetiche, il gioiello subisce un arresto ma prosegue, come una sottile vena carsica, per straripare poi negli anni ’80 con i lustrini, il Punk, il fucsia e l’electric blue, che raffigura il colore del lampo.
By Matteo Tuveri
In copertina: A colorful assortment of artificial plastic jewels, Roman Köhler (Public domain)