[fbshare type=”button”] «Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto.» La bambola, fin dall’antichità, rappresenta non solo l’età fanciullesca in cui ogni bambino gioca, ma anche l’immagine di sé che i suoi genitori, o la società, vogliono assuma. L’abbandono della bambola, infatti, rappresenta un rito di passaggio ben definito con il quale la fanciulla, interiorizzato il modello impostole, diventa essa stessa bambola della propria vita.
Gertrude, la Monaca di Monza, così spietata e misteriosa a causa di una vita travagliata, come racconta Alessandro Manzoni, giocava con bamboline vestite da monaca. Molto prima di lei, nell’antico Egitto, le bambine avevano bambole di stoffa e legno, mentre in Grecia, a quanto pare, erano di gran moda piccoli pupazzi in terracotta con un accenno di articolazione degli arti che li rendeva simili alle nostre bambole. Nel Museo nazionale romano di Palazzo Massimo è custodita una bambola in avorio, alta 16,5 cm, rinvenuta nella tomba di una bimba di otto anni la cui tomba fungeva da casa per lei e la sua compagna di giochi. Dal 1600 al 1800 la bambola, diffusa in tutta Europa in diverse fogge, quella più conosciuta la cosiddetta bambola di Fiandra (Pupo olandese), diventa la compagna delle bambine più ricche e il sogno di quelle più povere che, per sopperire, travestono pannocchie, sacchi ripieni di sabbia o pietre in modo che assumano fattezze umane. Germania, Italia, Austria e Spagna producono bambole dai lineamenti sempre più umani, mentre in Francia inizia a fiorire l’industria della bambola pensata per un pubblico più ampio e la produzione di esemplari orientali. François Boucher (1703-1770), pittore di corte, eseguiva le sue preziose bambole, dipinte a mano, solo su commissione, Albrecht Dürer le utilizzava per la proporzione dei suoi quadri e Hans Bellmer le rendeva protagoniste scomponendo gli arti, raddoppiandoli e sconvolgendo così lo spettatore.
Occhi, ciglia e sopracciglia, sempre più realistici, grazie anche all’uso di materiali naturali, fanno delle creazioni della seconda metà del 1800 un vero e proprio concentrato di fanciullezza, arte e tecnica. Il Museo del giocattolo di Norimberga espone esemplari di fattura eccellente, mentre quello della città di Monaco, in Baviera, allestito in una torre, si erge su più piani percorrendo la storia del giocattolo e esponendo esemplari di bambole che arrivano fino alle Barbie del secolo scorso.
In bisquit, porcellana, plastica (dal 1940) o stoffa (quelle della Lenci sono veri e propri tesori), grassocce, magre o indaffarate a cucinare, a portare a spasso il cane o a cullare il proprio bambino (per fortuna alcune intente anche a realizzarsi con i mestieri più disparati), le bambole sono arrivate fino a noi, spesso vittime anche loro del mercato di massa. Nel 2013 Dolce&Gabbana, su invito dell’UNICEF, per il progetto Frimousses de Createurs, ha creato la bambola Violetta, realizzata in resina, con il volto dipinto a mano, il cui ricavato della vendita è andato a favore dei bambini del Darfur.
Tuttavia le bambole non sono solo dolci e paffute creature, spesso la loro vicinanza al corpo umano, mista alla fissità dello sguardo, simile a un corpo senza vita, genera nello spettatore la pediofobia, una paura innata a cavallo fra l’inquietudine e l’angoscia (molto simile alla coulrofobia, fobia dei pagliacci). L’artista Shain Erin (clicca qui) ne ha fatto la sua fortuna e disegna e realizza bambole dai volti inquietanti, spesso sfigurate, Gérard Quenum (Dolls Never Die, October Gallery, London, 2012), originario del Benin, utilizza bambole riciclate per le sue opere ad alto valore drammatico, Paul Fryer (clicca qui) interpreta le sue bambole in maniera più ampia, raffigurando angeli o demoni a grandezza naturale, in cui l’uomo dotato di ali rimane sospeso fra inferno e paradiso, mentre Ludovica Virga, con la tecnica dell’uncinetto, riproduce amici e personaggi famosi creando le Mua Mua Dolls (clicca qui).
Martina B. Matta, classe 1988, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Sassari, inventa e crea pupazzi utilizzando scampoli e materiali di riciclo.
Come ha avuto l’idea di creare i suoi pupazzi e quali materiali utilizza?
L’ispirazione è nata guardando le opere dell’artista americana Amanda Louise Spayd, le faccine sono realizzate in fimo dipinto a mano. Volutamente inquietanti, un ritorno ad un’infanzia mai vissuta che scrutano con i loro grandi occhi. I miei pupazzi sono senza storia, non sono mai appartenuti a nessun bambino ma sono creati riciclando vecchi tessuti, recuperati da case e mercatini dell’usato. Materiali vissuti, dai ricordi dimenticati.
Lo scenografo Mattia Cogoni, laureato all’Accademia delle Belle Arti di Roma e uno dei titolari della Lesicade House, galleria e factory d’arte made in Cagliari, crea invece per iThings (clicca qui) le sue bambole, per ora a tiratura limitatissima, chiamate Doll Cellar Door – DcD. In gesso alabastrino, create arto per arto e assemblate e decorate a mano, le creazioni di iThings sono inquietanti, piccole, abbellite con un gusto per l’horror vacui che non raggiune mai il kitsch, spesso sfiora il Camp e tocca le vette del tatuaggio miniaturizzato (fattore non del tutto scontato in uno scenografo abituato a lavorare “in grande”).
Mattia Cogoni ci ha illustrato il suo lavoro, con un entusiasmo trascinante.
iThing. Scopi e concetti di un laboratorio molto speciale. Ce ne può parlare?
Gli iThings, ovvero “i cosi”, nascono come un vero e proprio sfogo creativo, nato da un desiderio di realizzare piccoli oggetti assecondando puramente i miei gusti personali legati a forma e colore, dedicandomi soprattutto a fusioni contrastanti (adoro i contrasti). Quindi, ecco nascere mostri multicolori dalle forme tondeggianti e bambole con visi più contemporanei, a dispetto dei tratti classici delle bambole da collezione.
Le bambole che lei crea con tanta pazienza sono in gesso alabastrino e odorano di antico e moderno. Inquietanti (e al tempo stesso dolci) rappresentazioni delle sembianze umane, tramandano immutati i lineamenti infantili come se chi le crea (o le ama) non avesse alcuna intenzione di abbandonare l’età dell’innocenza, quel periodo generalmente felice e asessuato che ogni individuo vive. Perché la bambola?
La scelta della bambola è frutto di uno stimolo casuale. Sono infatti venuto in possesso di una scatola di vecchi oggetti rotti, conservati in una mansarda. Nella scatola era presente anche una bambola rotta. Per curiosità l’ho riassemblata cercando di rivisitarla. Soddisfatto del risultato ho creato una serie di sette bambole che ho chiamato Doll Cellar Door. Una delle Doll si chiama Sacra Muerte, ispirata al culto Messicano che si manifesta con tatuaggi che ricordano il teschio. Dato l’aspetto dolce delle Dolls ho pensato subito di creare un contrasto inserendo alcune decorazioni. Amo gli oggetti che contengono contrasti che, per quanto netti, riescano ad amalgamarsi grazie ad un alchimia frutto della mia visione. Le bambole sono un classico giocattolo dell’infanzia che, riviste da adulti, spesso generano un inquietante senso di disagio, quasi paura. Racchiudono l’evidente dimostrazione che il tempo passa e che nulla può essere fatto per evitarlo.
Ci può parlare degli elementi che rendono uniche le sue bambole?
Come raccontavo, dopo il ritrovamento e la ricostruzione della parti rotte o mancanti, ho creato un calco e su di esso ho ricostruito la bambola secondo la mia idea, intagliandola e dandole connotazioni di un manichino con un viso più contemporaneo. Una volta realizzato lo stampo, ho creato i calchi scegliendo di usare come materiale il gesso alabastrino, per sottolineare la loro fragilità e il fatto che non fossero create per giocarci. I capelli o gli accessori sono realizzati con il fimo, una pasta polimerica in grado di mantenere colorazioni molto vive che, se lasciate pure, rievocano i giocattoli.
By Matteo Tuveri
Immagine di copertina: Vasily Ivanovich Surikov, Bambina con bambola, ritratto della figlia del pittore, 1888