Giulio Bosetti, Alberto Sordi e Paolo Bonacelli, Tino Buazzelli, Romolo Valli, Luigi De Filippo e Franco Parenti. Questi, fra cinema e teatro, i giganti con cui si è confrontato Emilio Solfrizzi, dal 19 al 23 aprile, sul palco del Teatro Massimo di Cagliari nella pièce di Molière “Il malato immaginario” (produzione Compagnia Moliere – La Contrada – Teatro Stabile di Trieste in collaborazione con Teatro Quirino -Vittorio Gassman), scritta poco prima di morire in una tensione fra ironia sociale e terrore di quello che, prima o poi, spetta a qualsiasi individuo.
Il protagonista Argante occupa il cerchio magico ligneo della scena, ricca di barocchi rimedi medicamentosi, con la sua paura delle malattie, della morte e la sua estrema passione per tutto ciò che può allontanare l’ansia dell’ultima ora. Ad affiancarlo la serva Tonina (Lisa Galantini, il grillo parlante della storia, il contraltare che oppone ad Argante la praticità della vita); Purgone e Diaforetico/Diarroicus (Sergio Basile, i medici grotteschi persino nel nome, simbolo esasperato dello strabordante mondo farmaceutico, vera e propria macchina da guerra teatrale) e Tommasino, interpretato con freschezza da Pietro Casella (pretendente alla mano della figlia del ben noto malato).
Al centro della “macchina” verticale in legno di Fabiana Di Marco, non più la musica e il balletto del genio francese (l’opera nasce come Comédie-ballet), ma un Emilio Solfrizzi che prende la maschera, i costumi (Santuzza Calì) e le nevrosi dell’umana natura, quella famigerata ipocondria della società ipersana che ha tolto dolore e morte dal suo immaginario, per restituire un uomo non solo desideroso di guarire da mali inesistenti, ma anche illuso di raggiungere la perfetta esistenza senza male alcuno (quella che Cesare Garboli definiva una ipotetica vita da sani). Una maschera comica, quella di Solfrizzi, che emerge dalle didascaliche pieghe televisive e ne prende i ritmi più serrati e divulgativi per farne dono al teatro con eleganza e grande ironia. Nel rispetto della lucida sentenziosità di cui Molière ha dotato Argante.
Nel parallelepipedo drammatico il tremore di Tommasino, il “mammina” di Argante (omaggio ad Alberto Sordi) e una lettera, dettata e scritta, che è citazione di Peppino e Totò (Totò Peppino e la malafemmina, Camillo Mastrocinque, 1956) e di Troisi e Benigni (Non ci resta che piangere 1984). Una furba carrellata dei grandi protagonisti e caratteristi del grande cinema italiano.
Nello spazio, Guglielmo Ferro prepara i personaggi, fin dall’inizio, alla loro estinzione per destinare il protagonista all’unica prospettiva, o destino, a lui proprio: la solitudine. Fra clisteri, medicine, droghe, nomi di malattie, umori, lavaggi, bevande e tisane, Argante rimane solo al centro di vorticose capriole scientifiche, fra marionette sospese e inanimate. In una danza che non ha più musica, il regista appare – occorre dirlo – bravo ed elegante.
Nel cast, rodato ed esperto, Antonella Piccolo, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Cecilia D’Amico, Luca Massaro e Rosario Coppolino.
Il malato immaginario è, dopo anni di pandemia ed emergenze sanitarie (in cui l’assistenza sanitaria ha messo a nudo ospedali in affanno, medici di medicina generale strozzati da incuria e pazienti costretti ad attendere mesi e anni per esami strumentali urgenti), il perfetto manifesto dell’umanità disillusa dalla tensione rampante nei confronti della cura della salute e della sofferenza.