Scritto a 27 anni da Harold Pinter, fortemente influenzato dal teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, The Birthday Party (la prima volta il 28 aprile 1958 all’Arts Theatre di Cambridge, con la regia Peter Wood) è andato in scena al Teatro Massimo Cagliari (e ancor prima al Menotti di Milano) dal 23 al 27 novembre.
Personaggi gentili e calmi (ma, come dice Miss Marple, bisogna temere soprattutto le persone gentili) si muovono su una scena asfittica, apparentemente normale, capace di sviluppare assurde situazioni ad imbuto in cui sentimenti repressi, ruoli sociali, insoddisfazioni, ferite mai del tutto guarite, sfociano in una vita in cui il passato piomba, con il suo senso di colpa, e si scontra con l’omologazione a una società snervante. Ad interpretare la vicenda, fra infiniti oggetti simbolici (“passaporte“, per dirla come Harry Potter, verso mondi umani coesistenti: l’infanzia, il rapporto fra i sessi, la visione di se stessi e degli altri, che sono e rimangono, questa volta cito Sartre, il vero inferno), Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Fernando Maraghini, Alessandro Sampaoli e Elisa Scatigno.
Sullo sfondo, discreto, saggio e potente, il regista Peter Stein, ultimo grande Maestro del Teatro che si chiede: “chi siamo noi? – domanda – Alla quale non possiamo mai rispondere perché una falsa o oscura memoria si mischia con la nostra voglia di metterci in scena, sta al centro di questo compleanno d’orrore“.
Senza addentrarci nelle disquisizioni sui contenuti stratificati e gli infiniti piani di lettura che come sempre offre Harold Pinter, occorre dire una cosa importante, basilare, della regia di Peter Stein sul testo e sulla messa in scena di The Birthday Party; una cosa che è una lezione, la più grande, per qualsiasi regista (anche nella lirica): per dare freschezza ad un testo teatrale non occorre offrire allo spettatore protagonisti vestiti di sacchi di juta che si muovono su nude scene tristi spacciando un francescanesimo ostentato per modernità. Non occorre aggiungere risate, battute o ammiccamenti a recitazioni impacciate. Basta tendere l’occhio e l’orecchio al testo e permettere, in un approccio del tutto Beauvoiriano alla letteratura, che esso parli ed estenda al massimo grado le sue potenzialità, i suoi contenuti e la sua forza comunicativa.
Per fare teatro rinnovato, ci insegna Stein, occorre semplicemente farlo, sporcarsi le mani con le parole e camminare su di esse.