Anni fa avevo letto un articolo su la Repubblica intitolato: “Il medico è donna? Allora il paziente vivrà di più e starà meglio”. Titolo forse provocatorio, ma del tutto realistico. L’autore, Giulia Alice Fornaro, si riferiva ad alcuni studi eseguiti negli Stati Uniti e pubblicati sul Jama Internal Medicine, svolti dal 2011 al 2014 su un campione di oltre un milione e mezzo di visite, che concludevano affermando che le donne tendono a fornire una cura migliore al paziente.
C’è da fare una premessa importante, non si intende assolutamente affermare che un medico- donna sia migliore del suo collega uomo. Non sarebbe affatto corretto! È necessario però partire dalla realtà: sul piano biologico, donna e uomo sono differenti, è una questione di DNA. Il professore Claudine Julien, nel 2017 in Pourquoi Docteur , scriveva che queste differenze genetiche determinano delle diversità fra i due sessi. Tali diversità si traducano in comportamenti diversi a livello di approccio dell’individuo nella sua veste ora di paziente ora di medico. Questo dato di fatto è stato tuttavia spesso sottostimato. Nel ruolo di paziente, molti studi hanno dimostrato – e il professore Claudine Julien ce lo conferma – che le donne, inclini fin dall’infanzia alla responsabilità e alla prudenza, si preoccupano maggiormente della loro salute ed impiegano generalmente meno tempo rispetto agli uomini a consultare un medico. Questa divergenza parrebbe trovare fondamento nell’inclinazione più spiccata negli uomini di correre maggiori rischi per affermare la propria virilità. Nel ruolo di medico, invece, le donne risultano più propense a rispettare le Linee Guida cliniche e soprattutto più inclini all’ascolto, il che si traduce in un maggior tempo dedicato, durante le visite, ad ascoltare i pazienti rispetto ai loro colleghi uomini.
Personalmente, al di là delle ricerche scientifiche, per l’esperienza maturata, il mio pensiero è che un medico-donna sia per sua natura più incline a curare: così come nella vita privata è la donna ad essere più attiva nel badare alla casa, nell’accudire i figli ed il marito e, più in generale, nell’assistere i propri cari quando ne hanno bisogno, allo stesso modo ho trovato analoghe attitudini e sensibilità anche nella vita professionale di medici-donna. Ciò premesso, è evidente che sarebbe assurdo chiedere ad un medico di rinunciare alla propria identità di genere nell’esercizio della sua attività. Tornando alle ricerche scientifiche, un team di studiosi dell’Università di Montréal, sotto la guida di Valérie Martel, si è soffermato sul comportamento di 870 medici di base che curavano dei pazienti diabetici: anche in questo caso è emerso che i medici-donna hanno ottenuto un punteggio ben più elevato in termini di conformità alle Linee Guida di pratica e sono state più numerose, rispetto ai colleghi, nel prescrivere i farmaci e gli esami raccomandati.
Anche sulla scorta di questi dati non si può certo affermare che i medici-donna esercitino la loro professione meglio dei medici-uomo, in quanto la relazione medico/paziente si basa principalmente su una questione di personalità e non certo di genere, tuttavia essi mettono in evidenza un diverso approccio. Un’indagine ministeriale del 2012 in Francia, ha evidenziato invece come i medici di base donna abbiano effettuato il 24% di consulenze e visite all’anno in meno rispetto ai loro colleghi uomini. Le stesse medici-donna hanno dichiarato di lavorare in media 53 ore a settimana, ovvero circa sei ore in meno rispetto ai loro colleghi dell’altro sesso.
La dottoressa Christine Bertin-Belot 3 ha fatto degli approfondimenti su questa indagine e ne è emerso che il 60% delle medici-donna ha però, di fatto, dedicato alle proprie consulenze una media di circa venti minuti contro il 35% dei colleghi-uomo; tenuto conto di questi dati, la ricercatrice ha, pertanto, concluso che i medici-donna hanno una qualità d’ascolto ed una attenzione anche “pedagogica” superiori. Diversi ulteriori studi effettuati negli USA, in Canada ed in Svizzera sono giunti a risultati analoghi. Concludendo, quindi, alcune delle differenze di genere che si possono osservare tra medici sono le stesse che si incontrano globalmente nella popolazione.
A tal riguardo mi preme portare la mia esperienza personale: prima del Covid-19 viaggiavo sovente in treno sulla tratta Alessandria-Torino. Un folto numero di studenti frequentava lo stesso tragitto. Durante il viaggio, osservando quelli che evidentemente erano studenti, molto spesso notavo che, a differenza dei ragazzi, più intenti a relazionarsi su altro – diciamolo francamente, loro si gingillavano – le ragazze ripassavano o si confrontavano vicendevolmente sulle lezioni. Ammetto che questa dedizione allo studio e senso di responsabilità mi avevano colpito e fatto sorridere pensando che probabilmente, in mezzo a quelle ragazze, potevano esserci delle future dottoresse in medicina.
Per quanto attiene più specificatamente i rapporti paziente/medico-donna e paziente/medico- uomo, la mia esperienza personale è in linea con gli studi, le osservazioni e le conclusioni sopra citati. Mi è capitato più volte di chiamare uno specialista in ospedale, certo non per futilità: mentre i medici-donna hanno quasi sempre trovato il tempo per riscontrare le mie chiamate (ricordo con piacere risposte di questo tenore: “Eccomi! sempre a disposizione”, “Se poi ha ancora bisogno di me, non esiti a richiamarmi”, o ancora “Venga in ospedale. La ricevo fra due pazienti”), i medici-uomo sono risultati, al contrario, più difficili da contattare. Sempre nell’ambito dell’esperienza personale, mi trovo a dover dissentire rispetto ai risultati degli studi menzionati in questo articolo là dove si afferma che i medici-donna tendono a fornire una cura migliore al paziente: sono stato assistito da medici di entrambi i generi con cure che mi permetto di definire eccellenti in ambo i casi.
Mi farebbe piacere che ogni lettore, a conclusione della lettura di questo articolo e dell’intervista che ne seguirà, possa avere spunti utili a formarsi una propria opinione. Considerato che ormai è un dato oggettivo che il numero di donne-medico sia superiore rispetto a quello degli uomini e continuerà a crescere, penso sia importante prendere coscienza di ciò; peraltro, poiché un medico, al di là del suo genere, è prima di tutto uno scienziato, una persona curiosa e bramosa di apprendere, dalla contaminazione di genere penso che potranno derivare importanti e costruttivi confronti di idee, che certamente non potranno che contribuire ulteriormente all’evoluzione della medicina, con un conseguente beneficio per tutti noi.
Per completare esaustivamente il quadro, ho ritenuto interessante coinvolgere due insigni professionisti della salute per un confronto: il professor Mauro Azzini (di seguito anche “M.A.”), specialista in malattie infettive, pediatria e scienze dell’alimentazione, già primario di malattie infettive presso l’Ospedale Civile di Alessandria, professore “a contratto” presso la Scuola di specializzazione in malattie infettive dell’Università di Pavia, docente in diversi Corsi di formazione AIDS per medici ed infermieri presso gli Ospedali di Alessandria, Asti e Cuneo e la professoressa Silvia Grottoli (di seguito anche “S.G.”), professore associato di endocrinologia presso la Facoltà di medicina e chirurgia all’Università di Torino, responsabile del Day Hospital Day Service e del Centro Ricerche Cliniche della Divisione di endocrinologia, diabetologia e metabolismo all’Ospedale Molinette di Torino, oltre che dirigente medico presso la citata divisione di AOU Città della Salute e della Scienza di Torino.
L’intervista vera e propria è preceduta da un informale colloquio conoscitivo tra i due eminenti professori che, molto cortesemente, hanno accettato il mio invito e che, prima di oggi, non avevano avuto occasione di incontrarsi. Informati sui temi trattati, questo il loro preliminare scambio di opinioni.
L’intervista. Mauro Azzini e Silvia Grottoli
M.A.: Mia figlia è un medico infettivologo ed esercita a Verona, dove lavora come ricercatrice universitaria. Personalmente non ritengo ci sia differenza fra maschio e femmina, perché, a mio avviso, tutto dipende dalla volontà e dall’interesse che le persone hanno. Mia figlia, ad esempio, è sempre stata una “martellatrice incredibile”: ho l’immagine di lei, nella bella stagione, seduta sul balcone intenta – anche a notta fonda – a ripetere ad alta voce. Spiritosamente le dicevo: “Anna- Maria, così ti sgoli!”, ma lei continuava imperterrita. Anche adesso che è madre di famiglia, mi sorprendo nel pensare con che determinazione riesca ad arrivare dove si prefigge.
S.G.: Questo è tipicamente femminile, in qualsiasi tipo di lavoro. Secondo me, in ogni attività, è fondamentale la capacità di essere multitasking, di riuscire a separare i pensieri, di programmare. Penso che, come è scritto nell’articolo che precede, le donne abbiano più attitudine alla multiprogrammazione: con questo non voglio certamente affermare che il maschio sia meno capace, infatti, non mancano maschi geniali.
M.A.: Questo vale anche per le donne. Pensando alle collaboratrici che ho avuto, un dato importante è il trascorrere del tempo: 10/15 anni incidono notevolmente nel cambio di mentalità generale e dei singoli. Ricordo, ad esempio, che quando iniziai gli studi accademici – nel 1967 – c’erano 481 iscritti alla Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia e che, l’anno successivo, questa cifra era quasi raddoppiata (erano circa 900), ma di compagne di università ne ricordo poche. Adesso sono il 70% e questo la dice tutta! Anche negli ospedali il cambiamento è radicale: in alcuni reparti, ad esempio ad Alessandria in quello di ematologia, erano molte le colleghe donna. La stessa cosa nel reparto dove lavora attualmente mia figlia, a cominciare dalla direttrice o “direttora”!
S.G.: Tengo a precisare – e lo dico sempre – che nel sistema sanitario nazionale non ho mai riscontrato ostracismo verso il sesso femminile. Per mia fortuna ho avuto dei direttori molto illuminati ed anche nel sistema di selezione non mi sono mai sentita ostacolata.
M.A.: Quello che però ho riscontrato, ed i numeri lo hanno dimostrato – per lo meno nel passato -, è che la scelta per le posizioni apicali non dipendeva dai medici, quanto piuttosto dai politici.
S.G.: Parlando di posizioni apicali, attualmente la situazione è migliorata, ma non è ancora ottimale: le donne sono confinate nelle posizioni cliniche, di medicina interna, pediatria, fisiatria, terapia del dolore. Nell’ambito chirurgico, invece, sono tutt’ora “latitanti”.
M.A.: Ricordo una donna primario di oculistica presso l’Ospedale Civile di Alessandria ed anche un’altra di medicina nucleare.
S.G.: Direi che ci siano anche tante donne neurochirurghe. Ricordo che nel passato i dirigenti ospedalieri sconsigliavano la chirurgia alle donne asserendo che fosse un lavoro pesante, come se noi donne non avessimo resistenza! Erano gli anni ’80. Al di là di questo, penso che prima o poi una donna debba fare una scelta, mi riferisco in particolare alla maternità: non è sempre semplice per un medico donna fare dei figli, perché il contesto non aiuta la professione in tutte le declinazioni della medicina. In alcuni ospedali vi sono asili nido per i figli dei dipendenti, purtroppo non in tutti. Alle Molinette di Torino ne abbiamo uno ed è certamente un passo avanti. Ritornando al tema della scelta delle posizioni apicali, nella stragrande maggioranza dei casi, questa cade su uomini, con l’eccezione per la direzione amministrativa dove troviamo spesso anche delle donne. Quanto invece alla carriera delle donne in medicina, non è giusto che possa fare carriera solo una donna che rinunci alla maternità.
M.A.: Si, occorre senz’altro precisare che, purtroppo, riescono a progredire in carriera i medici che hanno come unico impegno studiare ed esercitare la professione. E questo non è affatto giusto.
S.G.: Se penso ai nostri chirurghi-uomo, non si può certo affermare che siano “dediti all’ospedale fino alla morte”. Lavorano le ore dovute, anche di più, però come altro impegno, più che la famiglia, hanno soprattutto lo studio. Personalmente pur non avendo avuto figli, se anche ne avessi voluto, penso che avrei dovuto rinunciare alla maternità per dedicarmi maggiormente al lavoro; mentre i colleghi possono tranquillamente continuare a dedicarsi ad altri impegni senza che ciò sia per loro un handicap, così non è quando si tratta di avere figli per un medico-donna. Per altro, al di là dei limiti che la maternità pone alla carriera di un medico-donna, chi vi ha rinunciato, ha rinunciato anche ad alcuni vantaggi quali, ad esempio il congedo o l’assegno parentale.
Procediamo col confronto/intervista:
Qual è la vostra opinione riguardo alla relazione medico/paziente? Ritenete che ci siano implicazioni connesse alla sola personalità o anche al genere?
S.G.: Sicuramente la personalità del medico è fondamentale nella relazione medico/paziente, perché in essa non entra soltanto la cultura e la capacità di essere medico, né solo la cultura scientifica, ma anche e soprattutto la capacità di relazionarsi. Ovviamente non è corretto affermare che le donne siano più brave a relazionarsi rispetto agli uomini; dipende da soggetto a soggetto. Quello su cui concordo, è che, nella mia esperienza – ovviamente senza generalizzare –, esiste una curiosità femminile nelle vicende del paziente che va aldilà delle questioni esclusivamente sanitarie. Questo sì! Io, personalmente, mi relaziono, ho interesse del paziente indipendentemente dalla sua patologia: è un modo per instaurare una relazione, non solo perché faccio il medico. Chiedo sempre che lavoro fa? quanti figli ha? ecc.”. È una curiosità che, da un lato, ha una valenza dal punto di vista sanitario per le informazioni aggiuntive che si possono acquisire, dall’altro, è una necessità, perché creare una relazione aiuta a conquistare fiducia. Dire che sia una peculiarità strettamente femminile, non posso evidentemente affermarlo… anche se – come si suol dire – “la curiosità è donna”.
M.A.: Io, che appartengo al genere maschile, mi sento di ragionare soprattutto in termini di competenze: osservo colleghi più superficiali, che impiegano poco tempo nel relazionarsi con il paziente, perché non amano approfondire. Personalmente debbo dire che, sia nella prima visita che in quelle successive, parlavo con il paziente non meno di 45-60 minuti ogni volta; per me era importante. Concordo con quanto affermato dalla professoressa Grottoli, ovvero la necessità di creare empatia con il paziente, perché gran parte della terapia è data dalla fiducia che si riesce ad instaurare con l’interlocutore. Naturalmente poi la terapia può anche essere non totalmente efficace, ma questo è nell’ordine naturale delle cose. In ogni caso, è altrettanto vero che l’aderenza a determinati schemi terapeutici, anche complessi, è tanto più efficace, quanto più si è riusciti a dimostrare che ci si preoccupa della persona prima ancora che della sua malattia. Sempre nell’ambito della mia personale esperienza, ho avuto collaboratrici donne, ma ammetto di non essere stato “ad ascoltare” come si relazionassero con i pazienti. Comunque posso dire, da persona che vive e ha vissuto in un ambiente dove ci sono tanti medici, che siano essi maschi o femmine, di aver sentito pazienti ambulatoriali affermare “…ah! io preferisco andare con quello/a” … e, guarda caso, i medici più apprezzati sono quelli che dimostrano non solo una grande capacità, frutto di studi e di esperienza, ma che hanno anche una maggiore disponibilità umana.
S.G.: Aggiungerei una cosa: la questione non riguarda solo la relazione medico/paziente, ma anche quella paziente/medico. Da donna percepisco in generale, ma più spiccatamente nel paziente maschio e specie se anziano, non dico una mancanza di fiducia nelle donne, ma ancora la necessità di dover dimostrare di essere un buon medico, il ché, con mio carattere, mi spinge ad essere più empatica. Devo, inoltre, aggiungere che è più facile che mi chiamino “signora”, non certo per offendermi, ma quale retaggio culturale che viene da tempi lontani. Interpreto l’essere chiamata “signora” come un segno comunque di rispetto e, in qualche modo, di affetto, e non mi sento più di puntualizzare.
M.A.: Anche perché “sono più i dottori che i signori”! Ed è meglio essere “signore” che essere “dottore”! Da neo laureato, ricordo un episodio avvenuto in un pomeriggio d’estate, nel reparto di clinica medica nell’ospedale di Pavia dove esercitavo pratica: mi è capitato di sentire un parente di un paziente ricoverato chiamare “ragioniere” l’allora aiuto-anziano di quel reparto. In una vita di lavoro ne ho viste di tutti i colori. Debbo aggiungere che la diffidenza, al momento dell’incontro, nei confronti dei medici-donna esiste tuttora: è colpa della società che ancora non ha fatto i passi necessari verso la totale parità, indipendentemente dall’appartenenza all’uno o all’altro genere o, come diciamo volentieri, “gender”.
S.G.: Paradossalmente noi abbiamo un ambulatorio di andrologia che è sempre stato gestito in prevalenza da donne ed i pazienti maschi guardano a loro con fiducia, come se ciò non fosse un problema, anche se, nell’ambito dell’andrologia, ci verrebbe naturalmente da pensare che, per un uomo, il dover parlare dei propri disturbi sessuali con un medico-donna potrebbe non essere il massimo.
M.A.: È molto probabile che le risposte di una medico-donna siano meno superficiali e meno affrettate e meno legate alla “pilloletta”, ma più ad aspetti emotivi ed emozionali.
Ricerche eseguite in Svizzera evidenziano che i medici-uomo, rispetto alle colleghe, fanno meno domande ai propri pazienti e di conseguenza ricevono meno informazioni d’ordine psicologico e sintomatologico, inoltre forniscono meno delucidazioni ed informazioni sulle implicazioni sociali ed emotive delle malattie o sui trattamenti da eseguire. Avete esperienze identiche in merito?
M.A.: I dati statisti evidentemente sono quelli citati nella premessa alla domanda, però è altrettanto vero che ciò che si deve chiedere ad un paziente deve essere ripetuto più volte. Mi riferisco, nel caso specifico, alle anamnesi raccolte dai medici: l’anamnesi è una parte fondamentale della possibilità di fare una diagnosi; quando la si fa sulla base di “tre notiziole” che chiunque potrebbe raccogliere, non serve a nulla. In realtà se si vuole capire di più, occorre chiedere approfonditamente e, se necessario, richiedere più volte, perché il paziente può non ricordarsi immediatamente di tutto, perché, molte volte, al primo impatto c’è bisogno di rompere un po’ il giaccio e c’è sempre un po’ di timore. Per altro, forse più un tempo rispetto ad ora, l’aura del medico era tale da essere quasi una barriera per il paziente. È dunque fondamentale – così come ha affermato la professoressa Grottoli – “Chiedere! Chiedere! Chiedere!”. Bisogna necessariamente mettere il soggetto a proprio agio, perché ciò porta il paziente ad aprirsi anche su cose che per lui possono apparire non fondamentali, ma che lo potrebbero diventare. Come dice Suchet quando interpreta Poirot: “…è il particolare che risolve i problemi”: il medico svolge un’indagine, ora suffragata da esami, mentre in passato, il medico aveva a disposizione soltanto l’indagine, i sintomi ed i segni del male.
S.G.: Alla domanda risponderei: più che da una differenza di gender, direi che dipenda dalle capacità del curante: non tanto da quanto è bravo, ma da quanto approfondisce e, quindi, da quanta voglia abbia di giungere ad una soluzione. Più che di gender difference, penso che si tratti di una diversità di approccio legata ai tempi. Lo vedo con i nostri specializzandi: indipendentemente dal sesso, la loro anamnesi è veramente stringata; per loro importante è l’esame strumentale: “gli/le faccio una ECO”, “gli/le faccio una TAC”, “gli/le faccio una risonanza”, il che va benissimo, ma toglie tutta la parte del sentire, che non è vero che non valga nulla. L’anamnesi è fondamentale. Concordo con la collega: è proprio come la soluzione di un giallo! Mi trovo spesso a dire che non ho studiato medicina perché la sentissi come “una missione”, ma piuttosto perché amavo molto la matematica, ed io risolvo problemi! Quindi, tante più informazioni si acquisiscono dal paziente – ancorché possa risultare noioso, perché ripete le cose o ne dice altre che non c’entrano nulla – tanto meglio se ne comprende il carattere, la storia clinica e quella non clinica. L’approccio degli specializzandi che ho citato è maggiormente legato alle nuove generazioni, è un fenomeno trasversale che interessa sia maschi che femmine. Quando chiedo a miei specializzandi: “che cosa ha il paziente?”, solitamente la risposta è: “… adesso gli/le faccio l’esame X, poi ne faccio un altro…” ed è tutto sempre soltanto un fare, invece che un pensare.
M.A.: Avevo un collaboratore che all’ingresso di un nuovo paziente, dopo una breve anamnesi ed una storia clinica stringatissima, chiedeva in sequenza: ecografia, radiografia, TAC e risonanza. Ora che è uscita la TAC-PET, non mi stupirei nel sentirgli richiedere anche quest’ultima e poi tutte le futuribili diagnostiche per immagini… Bisogna parlare con le persone!
Le ricerche sopra citate mettono in evidenza come i medici-donna siano più propensi a rispettare le linee guida cliniche e soprattutto più inclini ad ascoltare i pazienti. Altre ricerche eseguite in Canada, USA ed Italia giungono alle stesse conclusioni. Avete riscontro di simili evidenze?
M.A.: Ho sempre interpretato le Linee Guida in questo modo: sono un utile strumento di consultazione che permette – in un relativamente modesto numero di pagine che può arrivare a 300-400 – di raccogliere le indicazioni diagnostiche, terapeutiche e quant’altro di più recente relativamente ad una determinata patologia. Le Linee Guida non sono legge; tuttavia, avendo a che fare con la Magistratura, bisogna necessariamente riferirsi ad esse, perché sono il condensato del sapere di moltissimi esperti o presunti/ritenuti tali e servono a ridurre gli errori. In ogni caso non è che perché una Linea Guida dica di fare così, lo si debba fare alla lettera. Perché il medico è comunque l’unico e finale destinatario della diagnosi e della terapia. Anche nell’ipotesi di una consulenza da parte di un altro collega esperto, per il quale si abbia la massima fiducia, il medico è in ogni caso libero di prenderla o meno in considerazione, perché resta comunque soltanto un parere. È il medico che poi, in scienza e coscienza, ma soprattutto in scienza, ha la responsabilità personale di decidere cosa fare. Le Linee Guida hanno uno scopo simile ad un parere. In sede giudiziale il magistrato le utilizza come parametro di riferimento per dire: “non avete fatto quello che è prescritto”. Nella mia lunga carriera di medico non sono mai stato destinatario di una denuncia, anche perché – come ho sempre raccomandato a miei collaboratori quando ero primario – occorre sempre motivare le scelte fatte, sia sul fronte della diagnosi, sia sul fronte della terapia, spiegare perché ci si comparta in un dato modo. Questo salvaguarda molto il medico, non tanto perché debba difendersi qualora ve ne siano i presupposti, ma perché significa che conosce la materia. Certamente non si può conoscere tutto, ed è per questo che le Linee Guida sono comunque utili. Un mio collega professore universitario ne era contrario ed anche ai congressi della Società delle malattie infettive c’erano sempre alcuni colleghi con posizioni che oggi assimileremmo a quelle dei no-pass e dei no-vax.
S.G.: Anche io considero le Linee Guida al pari di un parere, anche perché, mentre le Linee Guida hanno una portata di carattere generale, ogni paziente ha le sue peculiarità. Senza generalizzare, posso pensare che la donna sia più incline ad ascoltare il paziente, perché ciò rientra maggiormente nella sua indole, proprio per la sia predisposizione all’ascolto… forse è un comportamento materno. Per completezza, in relazione alla domanda, aggiungo che osservo come i giovani medici curanti, di entrambi i generi, tendano ad applicare le Linee Guida molto rigidamente.
Altre ricerche eseguite in Svizzera concludono che i medici-uomo siano più concentrati sulla patologia mentre i medici-donna prestino attenzione anche al paziente come individuo, al suo ambiente, ai risvolti psicologici. Questi studi hanno, quindi, evidenziato come i medici-uomo prestino meno attenzione agli aspetti cosiddetti emozionali e psicosociali della malattia ed agli impatti nel quotidiano di un trattamento medico. A riguardo mi preme ricordare il cambio epocale nel rapporto medico/paziente avvenuto nella seconda metà del XX secolo con una sempre maggiore e puntuale informazione fornita al paziente, che ha portato ad un vero e proprio diritto all’informazione circa il proprio stato di salute. Un paziente viene informato da quale patologia sia affetto, a quale terapia verrà sottoposto, e quale potrà essere la possibile evoluzione della sua situazione. In tale contesto avete riscontrato un diverso approccio in funzione del genere?
S.G.: Gestisco il Servizio Day Hospital di endocrinologia ed ho un capo sala donna. Abbiamo cercato, senza successo, di ottenere dalla Direzione sanitaria l’ampliamento dell’orario del day hospital dalle 7 del mattino alle 7 di sera. Attualmente l’orario di chiusura è alle 3 del pomeriggio. La richiesta era legata all’impatto non solo per il paziente, ma anche per la società in generale: se il paziente deve sempre fare la sua terapia al mattino, perde una giornata di lavoro; se lo stesso soggetto può accedere al servizio alle 6 di sera, probabilmente avrà una vita più normale, potrà continuare a lavorare e non farà più assenze dal lavoro. Purtroppo, non c’è stato verso! Aggiungo che i dirigenti maschi non avevano mai pensato di fare una simile proposta. Per quanto riguarda invece il “dire la verità sulla patologia”, quando la prognosi è infausta, trovo che sia una cosa difficile da dire, non certo come bere un bicchier d’acqua. Occorre essere sensibili e trovare le parole giuste per quel paziente, parole che non andranno bene per tutti, ma che possono trasformarsi in un’arma terapeutica sicuramente non banale, ovvero quella di avere un paziente consapevole di ciò di cui soffre.
M.A.: Riscontro che tuttora permangano, per certe patologie a prognosi fatale, delle “pressioni” da parte dei parenti più stretti a non rivelare la totale verità, e questo rappresenta per noi medici una situazione molto difficile. Concordo con la professoressa Grottoli che sia necessario “dire la verità” e ciò si rivela meno difficile se si è instaurato un rapporto medico/paziente che si estende anche al piano umano. Ci sono ormai tali e tante implicazioni a non dire la verità … peraltro le persone che sono consapevoli possono scegliere al meglio il proprio destino, destino fatto di sentimenti, ma anche di scelte materiali. Questo, per me, è determinante. Negli Stati Uniti si dice la verità brutalmente; tristemente maggior importanza è data al fatto che i degenti abbiano presentato la carta di credito all’ingresso in ospedale. Invece nel nostro mondo occidentale, il vecchio occidente, le cose sono diverse: sappiamo che la psicologia è nata qua, così come la psichiatria. È proprio questo l’aspetto da tenere in conto. Poi, se le risultanze degli studi dicono che i medici di genere femminile hanno una predisposizione maggiore all’attenzione al paziente quale individuo, io dico che statisticamente sarà così e non ho gli strumenti per poter contraddire, però, ritengo che sia importante il sentire del singolo medico maschio. Se il curante maschio non è “una rapa”, si comporta in un modo, se invece è “un pezzo di legno”, si comporta in un altro modo.
Nel 2013 nel quotidiano francese le Figaro, Anne Pringent scriveva che il futuro della medicina sarà femmina. Constatando che in quell’anno quasi la metà dei medici francesi erano donne, la giornalista prevedeva che nel 2020 le donne sarebbero diventate la maggioranza. Se da un lato non è possibile affermare che i cambiamenti in corso siano dovuti alla femminilizzazione della professione, dall’altro si deve altresì constatare che l’insegnamento della medicina è cambiato in modo radicale, anche se, purtroppo, le donne sono attualmente ancora pressoché assenti in alcune specialità. In Italia, a marzo 2021, i medici in servizio al di sotto dei 65 anni risultavano essere in maggioranza donne. Stando a dati del MUR risulta, altresì, che siano più numerose le donne che intraprendono una specializzazione ad indirizzo medico o clinico, mentre siano meno rappresentate in specializzazioni ad indirizzo chirurgico.
A cosa è dovuto, a vostro avviso, una minor presenza di medici-donna in certe specializzazioni? Da informazione che ho raccolto, risulterebbe che, mentre le donne sono più numerose in ambiti quali medicina del lavoro, fisiatria, dermatologia, ginecologia e pediatria, le stesse sono tuttora poco rappresentate in altri quali chirurgia ed anestesiologia: corrisponde a quello che avete potuto riscontrare negli ospedali dove lavorate o avete lavorato? In che cosa consiste il cambio radicale dell’insegnamento della medicina?
S.G.: Non si può dire che le donne preferiscono certe specializzazioni.
M.A.: Non è sempre così, perché per potere scegliere bisogna conoscere e bisogna cominciare a fare. In certi ambienti, soprattutto nell’ambito chirurgico, non è così frequente trovare donne in sala operatoria. Devo precisare che l’ambiente chirurgico è greve, ancora “da bar”, e così anche in cardiochirurgia. Oggi decidere che strada intraprendere non è più, per le donne, solo una scelta individuale, ma comporta anche dover valutare bene di “non cadere” in un ambiente non favorevole. Tuttavia le cose stanno cambiando sostanzialmente: ad esempio, dove c’è necessità di precisione – come in neurochirurgia ed in oculistica – le donne sono molte. Per quello che riguarda il cambio radicale nell’insegnamento della medicina, si tratta semplicemente dell’evoluzione dei tempi. È cambiata la didattica.
S.G.: Non c’è più la lezione cosiddetta frontale: da un lato “uno” che chiacchiera, dall’altro “gli altri” che ascoltano. Attualmente tengo un corso per gli studenti del quinto anno dal nome EBM, Evidence-Based Medicine. In tale corso presento un caso clinico, gli studenti si dividono in gruppi, pongono delle domande, utilizzano la methodical research, successivamente presentano il caso, e, anche se in partenza non sapevano quasi nulla di questa patologia, alla fine arrivano a risolvere il caso, acquisiscono conoscenze sulla patologia e tutto questo li rende e li fa sentire soddisfatti, il che non è poco!
M.A.: È proprio immergersi nel caso, metterci le mani e scottarsi anche le dita!
È stato analizzato l’impatto delle differenze biologiche di genere nella prospettiva dell’approccio del medico e in quella del paziente; dal punto di vista patologico si riscontrano analoghe “tipizzazioni”? Le diversità genetiche di genere conducano anche a differenziazioni di patologie? Potete segnalarci esempi di patologie maggiormente peculiari in ciascun sesso?
S.G.: Certe patologie, come il cancro del pancreas – legato all’abitudine al fumo e all’alcool –, sono più frequenti nell’uomo. Il cancro dei polmoni risulta, invece, attualmente più frequente nelle donne, in quanto gli uomini hanno progressivamente ridotto l’attitudine al fumo mentre le donne, già da molto giovani, cominciano a fumare come manifestazione di emancipazione. Devo segnalare altresì che si presentano dei casi di risposta gender differences alla terapia: ci sono farmaci ai quali le donne rispondono meglio o peggio. Per quello che riguarda invece le patologie maggiormente peculiari in ciascun sesso, il professor Azzini sicuramente concorda con me sul fatto che le donne sono maggiormente affette da osteoporosi, problemi della tiroide, mentre gli uomini sono più esposti all’alopecia androgenica.
M.A.: C’è una critica che ritengo corretta e alla quale penso che, nei prossimi anni, si cercherà di porre rimedio: nelle sperimentazioni di nuove molecole, i soggetti che vengono “arruolati” sono prevalentemente maschi. È probabile che i dosaggi che sono scritti su quello che viene chiamato “bugiardino”, in realtà siano tagliati più per una popolazione maschile, e, quindi, è possibile che vengano indicati, per alcune molecole, dosaggi troppo elevati per la popolazione femminile.
Rimane poi un tasto sensibile: è stato registrato che ad una sempre maggiore presenza di donne nella Sanità non corrisponda una analoga rappresentanza del genere femminile nelle posizioni di vertice. Rimane quindi un retaggio sessista che in qualche modo limita la donna e le impedisce di accedere a ruoli di vertice. Quale è la vostra opinione a riguardo? Quale pensate possano essere i benefici o i punti deboli della diversity in posizioni apicali?
S.G.: In posizione apicale ci sono, come abbiamo già detto, poche donne, perché anche l’apicalità della direzione è prevalentemente maschile. La scelta alla fine è dei politici. Poiché ormai, in Italia, ci sono più medici-donna che medici-uomo, è logico ritenere che presto sarà inevitabile trovare più donne anche nelle cariche apicali.
M.A.: Non sono favorevole a quella che viene chiamata “quota rosa”. L’unica quota che per me vale è il merito, la capacità. A mio avviso, non avere, anche in posizioni apicali, figure femminili è una deminutio per la società nella sua globalità. Bisogna creare le condizioni politiche, sociali ed economiche perché le donne, al pari degli uomini di uguale capacità, possano adire a posizioni apicali.
S.G.: Anche perché nel comune sentire verso i colleghi medici, in realtà, non c’è meno rispetto per una donna rispetto ad un uomo. Ho degli esempi lampanti a Torino, dove tutto dipende dal tipo di donna o di uomo. Di conseguenza ritengo che la società, in qualche modo, sia più avanti rispetto alla politica, come dimostra anche quanto recentemente accaduto con la proposta di decreto Zan. A questo viene da domandarsi: ma allora cosa ce ne facciamo dei politici?!
Se provocatoriamente equiparassimo il sessismo ad un virus, quale cura prescrivereste perché possa essere curato?
S.G.: Purtroppo c’è da constatare che si tratta di un fenomeno con radici radicate nel tempo e trasversale nella società contemporanea. Non c’è cura. Bisogno aspettare l’immunità di gregge!
M.A.: Un tempo quando non c’erano farmaci o vaccini c’era un unico sistema: il fuoco. Il fuoco uccide qualsiasi cosa … meno il prione.
Il caso vuole che, mentre scrivevo queste righe – nel mese di ottobre 2021- , sul quotidiano La Stampa veniva commentata l’intervista fatta allo storico Alessandro Barbero, da Silvia Francia, in occasione della presentazione di una serie di lezioni che successivamente il professore avrebbe tenuto al Grattacielo di Intesa Sanpaolo, dedicate a tre donne che hanno fatto la storia (Madre Teresa di Calcutta, Caterina la Grande e Nilde Iotti). Per via del tema gli era stato chiesto un commento sulla mancanza di donne ai vertici decisionali e la risposta è stata: “Premesso che sono uno storico e quindi il mio compito è indagare il passato e non il presente e il futuro, di fronte all’enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni, viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione […] Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma viene la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi”.
Barbero ha parlato di “differenze strutturali tra donne e uomini”, il che fa supporre, se vogliamo attenerci a quando riporta La Stampa, a differenze biologiche ed ontologiche che non permetterebbero alle donne di ricoprire posizioni decisionali e di potere. È proprio in ragione di queste differenze intrinseche tra donne e uomini, che, più avanti nell’intervista, Barbero si chiede: “È possibile che in media le donne manchino di quell’aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”.
Queste parole hanno scatenato un finimondo e si sono alzate accuse di sessismo e maschilismo, alimentate forse dalla decontestualizzazione dell’opinione espressa. Barbero è uno storico e in quanto tale viene criticato perché, forse meglio di altri, dovrebbe sapere che le differenze strutturali a cui si riferisce, possono essere sì, in minima parte, un dato di natura, ma sono soprattutto il frutto di processi storici lunghi e complessi: è incontrovertibile che per secoli alle donne sia stata preclusa la possibilità di autodeterminarsi, di scegliere chi essere o cosa fare e questi retaggi, in forme e gradazioni diverse persistono ancora oggi in ogni settore. Alla radio invece un commentatore segnalava un diverso intervento, sempre del professor Barbero, in cui il suo sguardo, solitamente rivolto al passato, era invece proiettato verso il futuro con una domanda all’incirca in questi termini: “potendo comunque parlare di retaggio culturale, non è che le ragazze oggi sedicenni, che già appartengono ad una nuova generazione di donne consapevoli della propria personalità intrinseca, delle proprie qualità e potenzialità, potrebbero diventare fra 20 anni delle dirigenti?”
Quale è la vostra esperienza e la vostra opinione in materia di equilibrio di genere (gender balance) in ambito sanitario?
S.G.: Rispetto all’asserzione di Barbero secondo cui le donne mancherebbe di aggressività, spavalderia, ecc., direi, forse ancora più banalmente, che probabilmente raggiungere una posizione apicale non rappresenta per loro una necessità o una priorità. Come dire: non è che mi realizzo se divento primario! In relazione al gender balance, a mio avviso ciò che conta è la meritocrazia: conta il merito, al di là del genere.
M.A.: Donne e uomini devono essere apicali in modo diverso. Meno male! Tutti uguali? No! ”Vive la différence !”.
S.G.: Mi preme sottolineare che tutti gli steroidi androgeni, a livello centrale, vengono trasformati in estrogeni. L’altro giorno sono stata alla presentazione di un libro ed ho scoperto che l’uomo di Neanderthal aveva un cervello molto più grande del nostro: questo significa che, col tempo, abbiamo ridotto la nostra capacità intellettiva a favore di quella collettiva.
M.A.: La struttura del cervello è evoluta molto ed è cambiata. Siamo Neanderthal per meno dell’1 %: il nostro codice genetico contiene geni che provengono dall’uomo di Neanderthal, mentre il restante 99 % proviene dall’Africa. In sostanza, siamo dei neri sbiancati, per effetto della minore intensità del sole alla nostra latitudine, rispetto al centro Africa. Un altro fattore deriva dai funghi: il nostro codice genetico ha molto di quello dei funghi.
Visto che oggi tutto si evolve molto velocemente, cosa intravvedete alla fine del tunnel? Possiamo auspicare alla parità di genere nel campo sanitario e, in generale, in tutte le professioni, come primo e fondamentale passo per arrivare ad un “equilibrio di merito” che vada oltre il genere?
S.G.: È inevitabile! e speriamo che ciò possa avvenire entro i prossimi vent’anni.
Testo di Roland Smit pubblicato in estratto su Eudonna Magazine, marzo 2022 (Il Sextante)