Chi fa comunicazione deve porsi il problema di una regola che la strutturi, che la incanali, che la guidi. E lo deve fare in maniera responsabile. I comportamenti responsabili non derivano dalla conoscenza esatta del bene e del male: la responsabilità è un metodo. E il metodo non è un contenuto, il metodo non è infallibile. La responsabilità ha a che fare con la libertà: responsabilità e libertà sono concetti correlati. La responsabilità presuppone oggettivamente la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. Non bisogna pensare che la responsabilità di chi opera nella comunicazione sia quella di guidare il proprio pubblico verso la verità. Semmai è vero il contrario: il dubbio è responsabile, la mancanza di dubbi è irresponsabile. L’idea che la comunicazione serva a diffondere la verità e la convinzione che possano esistere un’organizzazione e un sistema di norme in grado di strutturare tutto questo portano al totalitarismo. Con questi pensieri, e molti altri, siamo giunti alla nuova nera di MockUp Magazine, che diventa con questo Nuovo numero un trimestrale, denso di significato e di contenuti.
La responsabilità parte dalla libertà, dal dubbio, dall’ammissione della propria parzialità (e dall’accettazione di quella altrui). Bisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità. Perché la verità, anche quando la si raggiunge – e ciò avviene sempre in modo limitato – non può mai essere imposta, ma solo proposta. Miguel de Cervantes, nella prima parte del Don Chisciotte, definisce la storia madre della verità, il che vorrebbe dire che la verità non esiste prima che la si scriva e che la verità dei fatti contempla necessariamente una varietà di punti di vista, di voci, di opinioni, di visioni, di racconti, di rappresentazioni della realtà.
Tale pluralismo è ciò che deve garantire la struttura della comunicazione in un paese libero: tutelare la possibilità di interpretare, di raccontare e di pensare diversamente è la prima responsabilità di chi opera nella comunicazione.
Come ha osservato Claudio Magris, capire la realtà implica selezionarla, ordinarla, sfoltirla, privilegiare nella selva dei suoi innumerevoli fenomeni alcuni fatti a scapito di altri, vedere le cose in una certa luce e non in un’altra. Questo vuol dire che non c’è, non può e non deve esserci, un padrone unico delle notizie in grado di mandare in scena un mondo a sua immagine. Vuol dire che una stessa cosa può essere raccontata in mille modi diversi. Vuol dire anche possibilità di scegliere liberamente cosa raccontare fra mille cose diverse. Ogni cosa può e deve essere interpretata, criticata e, come diceva Charles Baudelaire, per essere giusta, per avere la sua ragione d’esistere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo che apra più orizzonti.
“Chi lavora nei mass media non può essere cinico”, sono le parole di un grande giornalista, Emilio Rossi, citate ne La sfida educativa. In uno dei suoi passaggi forse più originali, l’analisi del rapporto-proposta sull’educazione ricorda un principio troppo spesso dimenticato: ciò che arriva al pubblico passa attraverso le scelte e la sensibilità degli addetti ai lavori. E se “la nostra esperienza quotidiana testimonia che il cinismo è l’atteggiamento normale di chi fa informazione”, occorre comunque non arrendersi a questa logica.
Dovrebbe infatti essere compito dei mezzi di comunicazione conservare la memoria delle nostre molteplici appartenenze, quella della radice ultima che ci accomuna tutti. Contestare ogni forma di fanatismo per ricostruire, rifondare, le basi di un comune sentire, le basi etiche che ci fanno riconoscere parte di un destino condiviso. Dovremmo riconoscere che questo è anche il nostro interesse, l’interesse di ognuno di noi, ormai indissolubilmente legato a quello di tutti gli altri, anche a quello di chi è più lontano da noi. Per tutelare la nostra identità, etnica, culturale, religiosa, dovremmo costruire sul dialogo, e non sull’esclusione, la nostra identità, che non è mai statica. Le nostre identità in divenire.
Questo non significa annullare le differenze, ma piuttosto valorizzarle. La nostra responsabilità sta anche in questo ed è, al di là delle strutture – che non possono e non debbono prefigurare un contenuto, ma solo preservare una regola di libertà – individuale.
Assumersi la responsabilità, su questo punto, richiederebbe infatti, da un lato, un sistema di regole in grado di garantire la complessità culturale e, dall’altro – da parte di chi guida le strutture della comunicazione – l’impegno a difendere la propria autonoma capacità di lettura e di interpretazione della realtà legando le diverse voci come un coro e non come un insieme stonato.
C’è chi pensa che la comunicazione, per essere obiettiva, non debba prender parte. Ma non prendere parte vuol dire essere distratti, ignavi, conniventi. La comunicazione che serve a costruire, o consolidare, il consenso, che non esercita la libertà di critica, che coltiva la rassegnazione o il fervido entusiasmo, ha poco a che fare con la democrazia. I contenuti che vediamo nei media o in tivù sono prodotti da un’élite professionale e culturale composta di giornalisti, responsabili di palinsesto, autori, registi e produttori. Certo, ci sono vincoli esterni e oggettivi nell’autonomia del loro lavoro, ma la responsabilità della persona non può essere mai messa fuori gioco.
“Lo scopo di una rivista è quello di creare e vendere l’immagine di quello che i suoi lettori vorrebbero essere”, così dice il personaggio di Betty Suarez nella pluripremiata serie TV Ugy Betty. Noi, proprio come il personaggio interpretato da America Ferrera, abbiamo immaginato MockUp Magazine, che nasce come contenitore di arte, moda, società e stili di vita nel 2015 e che oggi si unisce alla grande famiglia editoriale de Il Sextante, come un magazine differente che celebra i suoi lettori così come sono davvero. Un magazine che trae ispirazione da qualcosa che non siano le verità assodate e celebrate, i panorami delle camarille e delle correnti politiche e di vicinato che portano chi vi partecipa a cantare e suonare il medesimo motivo, perdendo il contatto con la realtà e le sue infinite sonorità.
MockUp Magazine dice che bisogna darsi da fare, che bisogna usare il cervello (proprio come la volpe che ci rappresenta), avere cuore, etica, coraggio e essere sé stessi in una società ipotrofica, iperperformante e spersonalizzante alla quale occorre ribellarsi, citando il filosofo Giovanni Battista Tuveri, perchè spesso spietata matrigna. Salutiamo dunque il presente numero zero di MockUp con nomi di valore e personalità di ampio respiro, ognuno espressione di un background regionale, anagrafico e culturale differente. Capaci, insieme, di offrire spunti, espressioni, dubbi e visioni “altre”.
Mariapia Ciaghi (Direttore Responsabile) – Matteo Tuveri (Direttore Editoriale)