Quanti di voi sono andati al cinema in cerca della favola gossippara di Jacqueline Kennedy ne saranno rimasti delusi: Jackie, del cileno Pablo Larraín, è un film profondo che parla di una giovane e coltissima donna al cui marito viene fatta saltare la testa, sotto i suoi occhi, a colpi di fucile. Parla della sua relazione con il lutto, con l’idea di Dio e di se stessa nel mondo, come madre, moglie e soprattutto come essere femminile pensante e indipendente.
Fra un presente drammatico, ricordi di gloria, con la consapevolezza di iniziare qualcosa che nessuno prima di allora aveva mai fatto alla Casa Bianca (una Camelot immaginata e mai realizzata), i ricordi della protagonista prendono avvio da un’intervista esclusiva concessa a un giornalista (interpretato da Billy Crudup) e ricordano da lontano le atmosfere di Bobby, del regista Emilio Estevez (2006), e il fil rouge concettuale della pellicola The Iron Lady (regia di Phyllida Lloyd, 2011).
È un film con una sceneggiatura – scritta benissimo da Noah Oppenheim – che risente dei tre piani narrativi sui quali si articola ma che possiede il pregio assoluto di una recitazione di prim’ordine e di una fotografia e una cura dei costumi di altissima qualità.
L’interpretazione della Portman è intima, verosimile e personale al medesimo tempo. John Peter Sarsgaard, nei panni di Robert Kennedy, riesce a essere centrale anche quando non lo è: profondo, sensibile, sclerotico, sincero e egocentrico. Bobby è perfetto. Le donne Kennedy, ritratte insieme nei momenti familiari, sono dipinte al dettaglio: ogni gomito, piega di abito o sguardo è intrecciato per restituire un insieme di rapporti familiari ai quali Jackie non può appartenere perché è lei che si asciuga lacrime e sangue e non è un uomo a farlo per lei.
Il famoso “Clan Kennedy” è lì, in quei sussurri muliebri, nei gesti corali di una famiglia che ha visto consumare la propria invincibilità insieme alla propria estinzione.
Le Luci, quando non interviene il bianco e nero, sono sempre un po’ sbiadite, mimano la presa diretta o la sublimano, mentre i primissimi piani suggeriscono un lavoro al millimetro nelle espressioni ai quali non eravamo più abituati.
Dietro la pellicola un’indagine su una figura complessa che ha dato alla politica americana molto più di quanto i media abbiamo sempre pubblicizzato: da Jackie in poi, la narrazione della politica non può prescindere da uno storytelling forte, se non a discapito di un fallimento.
By Matteo Tuveri