Vi siete mai chiesti a cosa serve la musica? Bene, perché è una domanda che non si fa. Le arti che suscitano immediatezza come la musica, il cinema, che coinvolgono contemporaneamente una moltitudine di sensi, sono diventate ormai un balsamo quotidiano per lenire i graffi di un certo ruvido vuoto culturale. Non possiamo accettare la definizione di queste attività come semplice intrattenimento, eppure per quanto ci sforziamo non sappiamo trovargli una collocazione. Ci consola, ci rende più felici? Ci sfama? E l’artista oggi, chi è? Lo spariamo in orbita con consenso, senza controllare se si è sporcato le mani, se ha almeno timbrato il cartellino, poiché quello dell’artista è un mestiere che pare eletto, che si auto fonda. Altro rispetto alla società, un punto di vista illuminato sul mondo.
Da Woodstock fino a noi la musica è diventata una religione politeista, fatta di più eroi non sempre positivi, ma dall’innegabile potere salvifico. È l’esperimento linguistico più riuscito: veicolo di messaggi fra persone e storie distanti. Per quanto potente non urla mai la propria visione del mondo, piuttosto la trasmette per osmosi con la lentezza che penetra in profondità e resta nel tempo. Arriva nei vicoli dell’anima, stretti, dove non arrivano altri soccorsi e colma gli spazi vuoti, sostituisce i sentimenti come tessere di un puzzle e promuove le relazioni sociali. Aiuta la memoria: ognuno di noi collega ad una canzone, ad un brano, un ricordo, un tema che lo ha accompagnato per un capitolo del proprio racconto. È curativa e in ogni essere vivente è collegata alla sfera della sensualità, del piacere, della fertilità: insomma è un veicolo di vita.
Eppure in quest’epoca di grande crisi, anche la storia della musica è arrivata al suo punto cruciale. Dopo gli anni Settanta, dedicati a temi sociali come la pace e la guerra; dopo gli anni Ottanta e la nascita luminescente di divi immortali che oggi piangiamo come eroi storici; dopo il pop degli anni Novanta, dove l’adolescenza si è aggiudicata il palco con prepotenza biascicando flirt e sogni di gloria, siamo giunti alla prima decade del Duemila approdando sul pianeta del caos sterile venduto ai richiami pubblicitari. La musica, voce più potente, non aveva più niente da dire.
Nonostante tutto, fra le macerie apocalittiche vedo la terra che si smuove. Non a caso, come germogli prepotenti, le ultime grandi fatiche musicali hanno tutte un titolo evocativo, corale: richiamano la gente.
“People help the people” di Birdy, “Human” di Rag’n’Bone Man, “Other people” di LP. Sono alcuni esempi. “People help the people and if your homesick, give me your hand and I’ll hold it”, canta la prima: le persone aiutano altre persone/ e se tu hai nostalgia di casa, dammi la tua mano e la stringerò.” “I’m only human after all, Don’t put your blame on me”: Sono solo un essere umano, dopo tutto. Non prendertela con me”, borbotta il secondo. E ancora, “We had a love devout without a shred of doubt/ We never worried ‘bout other people: abbiamo professato un amore devoto senza uno straccio di dubbio/Non abbiamo mai avuto paura delle altre persone.”
Nel giallo di questo cambiamento di rotta si cela un indizio. È come se, senza chiedercelo, fossimo costretti a trovare all’arte una ragione sociale: la capacità di radunarci lasciandoci là dove siamo. Questo richiamo alla gente ha la funzione di un inno, non più di uno Stato politico quanto piuttosto di uno stato umano. È lo stormo di passeri che volando canta la libertà ed ispira l’uccellino in gabbia a trovare finalmente un modo per uscire. Human, people, siamo noi, è un canto che parla di noi. Perché parlare di gente in questo momento di grande sofferenza, di solitudine e isolamento sociale ha il potere di richiamarci e riunirci insieme, è il nostro cinguettio di gloria. Siamo collegati come fili di un tessuto pregiato, che se sfilacciato inorridisce e se stretto infonde meraviglia e desiderio. Insomma, siamo la gente e questa nuova rotta ci piace.
By Nicol Zacco