Viene a mancare a 84 anni, dopo la morte improvvisa della figlia Carrie Fisher, uno dei miti assoluti del cinema, di Broadway (e della TV): Debbie Reynolds aveva nel suo curriculum una serie infinita di film (dal 1948 un fiume ininterrotto): il più famoso Singin’ in the Rain (1952), più alcune memorabili partecipazioni televisive, come quella alla serie Will and Grace (1998-2006), o a numerose trasmissioni (ricca e divertente l’intervista-performance all’Oprah Winfrey Show del 2011).
La sua comparsa sulla scena, come il cammeo in Connie and Carla (con Nia Vardalos e Toni Collette, 2004), in cui si esibì in una versione speciale di There Are Worse Things I Could Do, era accompagnata da una vena camp- lei icona gay per eccellenza – ricca di verve, intelligenza e ironia. Nonostante le presentazioni roboanti, entrava quatta in scena, spesso traballando in un’imitazione volutamente goffa di alcuni passi di tip tap, calcava la mano sul suo essere una delle vecchie memorie del cinema, evitando così l’effetto Madame Tussaud che proprio non le si addiceva. Pettinatura cotonata, veloce movimento delle mani, qualche elegante doppio senso a ritmo di commedia (di quelle autentiche), la Signora Reynolds non l’ha mai mandata a dire a nessuno, nemmeno all’ex marito Eddie Fisher che, preso da improvviso amore per la sua amica Liz Taylor, la lasciò nel 1958 con i due figli nella loro perfetta casa di Hollywood. Le due donne, tuttavia, non si odiarono mai, duettarono in These Old Broads, con Shirley MacLaine e Joan Collins, nel 2001. Della Taylor disse che era impossibile odiarla, aggiungendo poi come fosse assolutamente necessario mettere il proprio marito in garage in caso di una sua improvvisa visita.
Collezionista accanita di cimeli del cinema, possedeva 3500 costumi di scena (dalla bombetta di Charlie Chaplin alla parrucca di Harpo Marx, passando per le scarpette rosse di Dorothy, indossate da Judy Garland nel Mago di Oz del 1939, e il cappotto di Orson Welles) e diceva dell’età avanzata come non fosse per niente un bel periodo, fatto di dolori alle ginocchia e ai fianchi. Cose di cui, come confidò a Celia Walden sul The Telegraph, non era di certo bello parlare. Sempre alla giornalista confidò nel 2014 il suo atteggiamento super partes riguardo i momenti della sua carriera, non ne aveva uno preferito: essendo abituata a prendere il meglio dalle esperienze, preferiva ricordare tutta la sua esperienza professionale come un unico meraviglioso party. Delle donne del XXI secolo metteva in rilievo la paradossale assoluta mancanza di seduzione, forse perché abituate a rivelarsi troppo in un “bubu settete” di seni e sederi che, per alcune, diventa letale (visto l’armamentario non sempre all’altezza); mentre dei nostri tempi deplorava l’accento sulle “misure”: tutto oggi è ridotto a una questione di centimetri, dal seno all’appendice maschile, fonte di eterna ispirazione dall’antichità. E se invece provassimo a sentirci bene con le forme, le grandezze e le linee che abbiamo? Senza rassegnazione, per carità, ma forse un atteggiamento più conciliante ridarebbe il sorriso a qualcuno.
E poi la saggezza, il regalo dell’età avanzata. Una condanna la vecchiaia, secondo la Reynolds, perché porta a vedere con maggiore precisione la fallacità di alcune scelte, di alcuni mondi, di alcune persone. Qualcosa che rende capaci di capire dove la vita porterà inesorabilmente. Una vena di tristezza che forse era meglio non rivelare.
Leggera e profonda Mrs Reynolds, di quella leggerezza che oggi manca.
By Matteo Tuveri